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Diritto di critica | November 22, 2024

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L'altra faccia del Jobs Act

Le nuove norme sul lavoro disincentivano la mobilità lavorativa. E con questa una migliore “allocazione delle risorse”

“Credo che il Jobs Act sia un’ottima cosa, ma per me è già un problema”. Matteo è un ingegnere. Trent’anni e una carriera in ascesa. Si laurea nel 2008, e subito trova lavoro, appena in tempo prima che la crisi distrugga tutte le speranze. Subito uno stage in un’importante azienda. Poi, dopo solo tre mesi, un contratto a progetto in una società di consulenza. Dopo altri quattro mesi cambia di nuovo, di fronte alla possibilità di guadagnare qualcosa in più. Alla fine manda il proprio cv ad una grossa multinazionale e viene assunto a tempo indeterminato. Nel giro di un anno, da stagista a 700 euro al mese, si ritrova con un contratto stabile e tutte le garanzie sindacali.

Cambiare non conviene. “Dopo l’assunzione ho sperato di fare una rapida carriera interna”, racconta Matteo. “Speravo che con il mio impegno, lavorando anche 10-12 ore al giorno, potessi emergere velocemente. Così non è stato. Ho pensato, quindi, di cambiare di nuovo”. Nuove motivazioni, nuove idee, nuova energia. “Ma tra il pensare e il fare sono passati molti mesi. E quando si stava concretizzando la possibilità di cambiare lavoro è arrivato il Jobs Act”. Fine. “Oggi ho un contratto a tempo indeterminato con tutte le precedenti garanzie; se decidessi di cambiare entrerei nel nuovo regime. Così ho pensato: ‘Mi conviene?’. E ho rinunciato”.

Il dilemma tra carriera e sicurezza. Il caso di Matteo è ovviamente un caso limite. Difficilmente i giovani come lui hanno avuto le stesse possibilità di carriera. Un caso limite che però racconta bene le dinamiche del mercato del lavoro in questa fase di cambiamento. Matteo rinuncia a nuove opportunità di carriera per la stabilità. Un dilemma, questo, che interessa, in questo momento, molti under 40 che desiderano crescere professionalmente ed affermarsi. È uno degli effetti collaterali del Jobs Act che può limitare quella che gli economisti chiamano “l’efficiente allocazione delle risorse”, quando per risorse si intende il capitale umano. Ciò non accade solo in questa fase di transizione (che poi potrebbe durare, nei fatti anche due decenni), ma anche a regime. Chi oggi viene assunto con il Jobs Act sarà disposto a cambiare volontariamente lavoro solo nei primi mesi o al massimo nei primi due anni di impiego. Questo perché il nuovo regime prevede tutele crescenti che però si azzerano nel momento in cui si rinuncia ad un contratto o si viene licenziati, e si inizia un nuovo impiego.

Un’idea. Per evitare che il Jobs Act divenga un disincentivo alla crescita professionale e ad una più efficiente “allocazione delle risorse” (che può equivalere anche a qualche punto in meno di Pil) si potrebbe pensare di introdurre alcune forme di tutela nel nuovo contratto se il lavoratore ha lasciato in maniera volontaria il lavoro precedente, in modo che, chi desidera cambiare può farlo senza temere di perdere sicurezza economica e lavorativa. Un vantaggio per il lavoratore e per le aziende più “efficienti”, senza togliere a chi è in cerca di un impiego, la possibilità sfruttare appieno i vantaggi del Jobs Act.

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