''Ho dormito con te tutta la notte'', la vita ricordata dall'alto di un tetto - Diritto di critica
L'ultimo romanzo di Cristiana Alicata racconta l'amore tra due ragazze, la malattia e la ricerca dell'infanzia lontana. Con una penna di rara bravura
“ho dormito con te tutta la notte“, l’ultimo libro di Cristiana Alicata edito per i tipi Hacca edizioni, è un romanzo sul passato che ritorna e sul presente che diventa futuro su impronte già note.
Riducendo ai minimi termini: “ho dormito con te tutta la notte” racconta una ricerca. La ricerca di persone e di un’infanzia perse negli anni, la ricerca di un equilibrio tra padre e figlia, la ricerca di una madre che per la protagonista è “come ricordo di un viaggio lontano di cui non avevo fotografie”. E, infine, la ricerca di una corrispondenza tra caratteri diversi in un amore tra due ragazze per cui i sentimenti non sono mai gli stessi allo stesso momento e dove a parlare sono i gesti, i silenzi, le poche parole timorose del loro stesso peso.
“Sono qui, su questo tetto dimenticato – si legge nel romanzo – perché a casa mi mancavano i tuoi polpastrelli, le impronte che distrattamente hai lasciato su ogni cosa che, insieme, negli anni abbiamo accumulato da quel giorno lungo il Tevere. Sono qui perché alla fine, quando te ne sei andata, ho imparato a memoria ogni angolino del nostro soffitto, ne ho scovati un paio nascosti in cucina, avvistati mentre cambiavo una lampadina fulminata, in piedi sulla scala, nello spazio tra i pensili e il soffitto. Da terra non si vedevano. Sono rimasta a guardarli a lungo anche per te che non li avevi mai visti”.
Nel suo viaggio a ritroso (mentre, sul fondo delle pagine, si ascolta il rumore del presente che disinfetta ferite e cicatrici), Cristiana Alicata ritorna fin da subito a quella dimensione mitologica qual è per ciascuno l’infanzia: quasi mai simile a una fiaba quanto a una continua ricerca di certezze, della corretta interpretazione dei propri sentimenti e sensazioni, nel confronto tra quanto si avverte e quanto comunica il mondo esterno. È la vita, con il suo divenire, a non essere mai lineare, a somigliare più a una terra bombardata che non a un fluire di equilibri. L’amore destabilizza, così come fanno la solitudine, i rapporti umani, le folle, il confronto e il contatto con il prossimo, gli sguardi, gli accenni, le parole non dette, i silenzi. E la malattia. Fin da bambini si inizia a fare i conti con tutto ciò che metterà a dura prova quella capacità – proprio come si faceva fa piccoli – di camminare sul bordo di un’aiuola senza cadere.
E tra i personaggi principali del romanzo – in un’apparente posizione secondaria, chiusa in una stanza, relegata in una clinica o colta in scatti d’ira folli e irrefrenabili – c’è la madre della protagonista. Malata di schizofrenia e ormai lontana da un passato felice fissato in alcune fotografie sbiadite, i suoi eccessi condizionano una serenità familiare già precaria e fragile, minando alla base il rapporto con un padre che via via sarà sempre più assente. Cristiana racconta senza mezzi termini – anche con l’aiuto e il supporto di due medici, come emerge dai ringraziamenti – una realtà spesso taciuta o raccontata in sordina, come quella degli effetti che alcune malattie gravi inevitabilmente hanno su chi si prende cura di una persona vittima di una patologia mentale: le mura di una casa amplificano, costringono le urla, strozzano quella pressione che si vorrebbe liberare, segnano in modo indelebile chi le subisce:
Era buio pesto, c’era silenzio e non ti dissi che però sapevo benissimo di solitudine e di follia. Ti lasciai credere fino in fondo alla mia ingenuità. Era facile ingannarti, portavo segni che non si vedono a occhio nudo, ero come una città la cui ferita si coglie solo dall’alto e di notte, dalla finestra di un albergo.
Il romanzo di Cristiana Alicata è, dunque, una storia di abbandoni e ritrovamenti mentre nonostante tutto ci si deve adattare a vivere, a camminare in equilibrio e a respirare. E nel rapporto con l’altro, quando l’amore diventa corrispondenza, i gesti acquistano importanza. Le consuetudini si fanno intimità, la stessa vicinanza che si traduce in dialoghi silenziosi e mappe conosciute:
“Allora hai infilato il viso nel mio collo, come se mi conoscessi da sempre e fossi un tuo ricordo. Come se stessimo per fondare una città – io ero Enea e tutte le guerre erano finite – o come se fossi Ulisse sulla soglia di casa, mentre Argo moriva. Rifarai quel gesto milioni di volte. Anche d’inverno. Avrò una sciarpa e tu la scosterai come se fosse lì per darti fastidio. Ti ho trovata”.
E ancora:
“Mi hai spogliata, piano, e mi sono rannicchiata nel tuo profumo. Ti ho leccato l’avambraccio, l’ho morso, ti ho morso il punto in cui il collo diventa nuca, un punto forte, di snodo, dove la testa diventa corpo e il dietro diventa davanti. Ti piaceva lì e mi hai graffiato le spalle, ti sei aggrappata a me con le gambe, come se fossi un tronco d’albero, ti sei inerpicata, mi hai chiesto e infine hai lasciato andare il corpo, mi hai voltato le spalle, ti sei presa una mia mano, l’hai messa su un seno, mi hai tenuto contro di te”.
I gesti sono un unguento che lenisce le ferite lasciate dalle parole, così come i silenzi, dosati per non ferire.
A far da cornice a un romanzo che lascia il segno, infine, lo stile essenziale ma al contempo profondo e attento della scrittura, l’edizione di ottima qualità e la copertina, curata da uno dei migliori professionisti del settore, Maurizio Ceccato.
“ho dormito con te tutta la notte“, l’ultimo libro di Cristiana Alicata edito per i tipi Hacca edizioni, è un romanzo sul passato che ritorna e sul presente che diventa futuro su impronte già note.
Riducendo ai minimi termini: “ho dormito con te tutta la notte” racconta una ricerca. La ricerca di persone e di un’infanzia perse negli anni, la ricerca di un equilibrio tra padre e figlia, la ricerca di una madre che per la protagonista è “come ricordo di un viaggio lontano di cui non avevo fotografie”. E, infine, la ricerca di una corrispondenza tra caratteri diversi in un amore tra due ragazze per cui i sentimenti non sono mai gli stessi allo stesso momento e dove a parlare sono i gesti, i silenzi, le poche parole timorose del loro stesso peso.
“Sono qui, su questo tetto dimenticato – si legge nel romanzo – perché a casa mi mancavano i tuoi polpastrelli, le impronte che distrattamente hai lasciato su ogni cosa che, insieme, negli anni abbiamo accumulato da quel giorno lungo il Tevere. Sono qui perché alla fine, quando te ne sei andata, ho imparato a memoria ogni angolino del nostro soffitto, ne ho scovati un paio nascosti in cucina, avvistati mentre cambiavo una lampadina fulminata, in piedi sulla scala, nello spazio tra i pensili e il soffitto. Da terra non si vedevano. Sono rimasta a guardarli a lungo anche per te che non li avevi mai visti”.
Nel suo viaggio a ritroso (mentre, sul fondo delle pagine, si ascolta il rumore del presente che disinfetta ferite e cicatrici), Cristiana Alicata ritorna fin da subito a quella dimensione mitologica qual è per ciascuno l’infanzia: quasi mai simile a una fiaba quanto a una continua ricerca di certezze, della corretta interpretazione dei propri sentimenti e sensazioni, nel confronto tra quanto si avverte e quanto comunica il mondo esterno. È la vita, con il suo divenire, a non essere mai lineare, a somigliare più a una terra bombardata che non a un fluire di equilibri. L’amore destabilizza, così come fanno la solitudine, i rapporti umani, le folle, il confronto e il contatto con il prossimo, gli sguardi, gli accenni, le parole non dette, i silenzi. E la malattia. Fin da bambini si inizia a fare i conti con tutto ciò che metterà a dura prova quella capacità – proprio come si faceva fa piccoli – di camminare sul bordo di un’aiuola senza cadere.
E tra i personaggi principali del romanzo – in un’apparente posizione secondaria, chiusa in una stanza, relegata in una clinica o colta in scatti d’ira folli e irrefrenabili – c’è la madre della protagonista. Malata di schizofrenia e ormai lontana da un passato felice fissato in alcune fotografie sbiadite, i suoi eccessi condizionano una serenità familiare già precaria e fragile, minando alla base il rapporto con un padre che via via sarà sempre più assente. Cristiana racconta senza mezzi termini – anche con l’aiuto e il supporto di due medici, come emerge dai ringraziamenti – una realtà spesso taciuta o raccontata in sordina, come quella degli effetti che alcune malattie gravi inevitabilmente hanno su chi si prende cura di una persona vittima di una patologia mentale: le mura di una casa amplificano, costringono le urla, strozzano quella pressione che si vorrebbe liberare, segnano in modo indelebile chi le subisce:
Era buio pesto, c’era silenzio e non ti dissi che però sapevo benissimo di solitudine e di follia. Ti lasciai credere fino in fondo alla mia ingenuità. Era facile ingannarti, portavo segni che non si vedono a occhio nudo, ero come una città la cui ferita si coglie solo dall’alto e di notte, dalla finestra di un albergo.
Il romanzo di Cristiana Alicata è, dunque, una storia di abbandoni e ritrovamenti mentre nonostante tutto ci si deve adattare a vivere, a camminare in equilibrio e a respirare. E nel rapporto con l’altro, quando l’amore diventa corrispondenza, i gesti acquistano importanza. Le consuetudini si fanno intimità, la stessa vicinanza che si traduce in dialoghi silenziosi e mappe conosciute:
“Allora hai infilato il viso nel mio collo, come se mi conoscessi da sempre e fossi un tuo ricordo. Come se stessimo per fondare una città – io ero Enea e tutte le guerre erano finite – o come se fossi Ulisse sulla soglia di casa, mentre Argo moriva. Rifarai quel gesto milioni di volte. Anche d’inverno. Avrò una sciarpa e tu la scosterai come se fosse lì per darti fastidio. Ti ho trovata”.
E ancora:
“Mi hai spogliata, piano, e mi sono rannicchiata nel tuo profumo. Ti ho leccato l’avambraccio, l’ho morso, ti ho morso il punto in cui il collo diventa nuca, un punto forte, di snodo, dove la testa diventa corpo e il dietro diventa davanti. Ti piaceva lì e mi hai graffiato le spalle, ti sei aggrappata a me con le gambe, come se fossi un tronco d’albero, ti sei inerpicata, mi hai chiesto e infine hai lasciato andare il corpo, mi hai voltato le spalle, ti sei presa una mia mano, l’hai messa su un seno, mi hai tenuto contro di te”.
I gesti sono un unguento che lenisce le ferite lasciate dalle parole, così come i silenzi, dosati per non ferire.
A far da cornice a un romanzo che lascia il segno, infine, lo stile essenziale ma al contempo profondo e attento della scrittura, l’edizione di ottima qualità e la copertina, curata da uno dei migliori professionisti del settore, Maurizio Ceccato.