Separati e contenti. Il curioso caso della Repubblica del Texas - Diritto di critica
Coniano moneta ed emettono passaporti: sono gli indipendentisti texani, che sognano uno Stato tutto loro. E l’FBI li tiene d’occhio
Movimento nazionale indipendentista. Non siamo nei Paesi Baschi o in Catalogna, e nemmeno in Trentino o nell’Est europeo. Ma stiamo parlando della “gloriosa” Repubblica del Texas, così come la vorrebbero i separatisti che da anni coniano moneta propria e girano per Houston con i passaporti texani in tasca, incuranti della sovranità di Washington. È di questi giorni la notizia, diffusa dal New York Times, di un raid delle forze dell’ordine e dell’Fbi contro alcuni attivisti che volevano impedire un pignoramento ordinato da un giudice locale nei confronti di un compagno separatista. Ed ecco che la Repubblica del Texas torna agli onori delle cronache, dopo i fatti violenti del 1997 (il rapimento di una coppia da parte dell’ala più estremista del movimento), che portarono alla carcerazione del loro “Ambasciatore” Richard McLaren.
La peculiarità texana. Una causa, quella separatista, che ha radici lontane: «Gli aneliti secessionisti del Texas – spiega Stefano Luconi, docente di Storia degli Stati Uniti presso le Università di Padova e Firenze – sono alimentati dalla peculiarità dell’esperienza storica di questo Stato, l’unico dell’Unione ad essere stato sovrano e indipendente, tra il 1836 e il 1845, e l’unico che scelse autonomamente di aderire all’Unione stessa. C’è anche da sottolineare che l’orientamento secessionista è collocabile in ambienti conservatori, che accusano il governo federale di essere controllato da politici “radicali”. Non a caso, il separatismo texano è rinato durante l’amministrazione del democratico Clinton, negli anni Novanta, e ora, con Obama presidente».
Idee chiare. Il “Texas Nationalist Movement” (TNM), una delle correnti che formavano il gruppo della Repubblica del Texas, è l’organizzazione più grande dello Stato americano e conta più di 250mila aderenti tra iscritti e sostenitori esterni. È finanziata, come leggiamo dal suo manifesto, da donazioni pubbliche e volontarie. Navigando in rete scopriamo che i suoi attivisti partecipano a sit-in, guidano manifestazioni, parlano in radio e diffondono il loro messaggio in maniera capillare, dai gadget fino alle petizioni on-line: l’ultima degna di nota è datata 2012 quando, assieme ai separatisti della Louisiana, il TNM ha chiesto l’indipendenza alla Casa Bianca, dopo una regolare raccolta di firme. Secondo un sondaggio della Reuters, elaborato nel 2014, il 34 per cento circa dei texani sarebbe favorevole alla secessione. Mentre per il sito web dei nazionalisti i cittadini indecisi sarebbero solo il 16 per cento. I membri del movimento ritengono che il Texas sia stato, quasi duecento anni fa, irregolarmente annesso agli Stati Uniti e che sia in grado, oggi, di diventare una Repubblica autonoma, lavorando al cambiamento in ambito politico, culturale ed economico: «Vogliamo una vita migliore per noi e i nostri figli – dicono – e vogliamo liberarci dal governo dell’Unione, che ci soffoca con il debito pubblico ed è pieno di burocrati». Un po’ “Roma ladrona” alla texana, insomma.
Indipendenza economica. L’ipotesi più suggestiva, comunque, è quella di una piena autosufficienza dal punto di vista economico: «Abbiamo tutto quello che serve non solo per sopravvivere, ma per prosperare. Sappiamo che lo stesso spirito che ci ha portato allo sviluppo ci porterà a traguardi ancora maggiori come Nazione indipendente». Preso da solo, il Texas, con oltre 25 milioni di abitanti, è al tredicesimo posto al mondo per fatturato, grazie alle ricchezze del sottosuolo e alla ricerca tecnologica. Perfino il prestigioso magazine “Forbes”, un paio di anni fa, ha provato a seguire questa idea e ad analizzare lo Stato del Sud come una Repubblica indipendente. In costante crescita dopo la crisi finanziaria del 2008, il Texas gode di un’economia florida, perfetto mix tra industria, agricoltura e terziario, ed è leader mondiale nel campo della difesa, tanto che se investisse un minimo nel settore diventerebbe la quinta potenza militare mondiale, davanti a Paesi come Gran Bretagna, Francia e Germania. Ma il suo punto di forza sarebbe ovviamente quello dell’energia. Energia data dal petrolio, dal gas naturale, dal vento. Che consentirebbe alla ipotetica Repubblica un’autosufficienza invidiabile. E non dimentichiamo il capitale umano e lavorativo che attirerebbe grazie alla ricerca e alle leggi più permissive nei confronti dell’immigrazione.
Scenari futuri. Nonostante le premure dell’Fbi e la preoccupazione di una deriva violenta, per ora il “nuovo” movimento indipendentista texano si limita ad organizzarsi e a farsi sentire in maniera pacifica, sperando magari di convincere sempre più cittadini ad una svolta. Lo scenario di una “Repubblica del Texas” è piuttosto futurista. Intanto, però, i separatisti continuano a produrre pregiate monete e a riunirsi nel loro “Parlamento”.
Movimento nazionale indipendentista. Non siamo nei Paesi Baschi o in Catalogna, e nemmeno in Trentino o nell’Est europeo. Ma stiamo parlando della “gloriosa” Repubblica del Texas, così come la vorrebbero i separatisti che da anni coniano moneta propria e girano per Houston con i passaporti texani in tasca, incuranti della sovranità di Washington. È di questi giorni la notizia, diffusa dal New York Times, di un raid delle forze dell’ordine e dell’Fbi contro alcuni attivisti che volevano impedire un pignoramento ordinato da un giudice locale nei confronti di un compagno separatista. Ed ecco che la Repubblica del Texas torna agli onori delle cronache, dopo i fatti violenti del 1997 (il rapimento di una coppia da parte dell’ala più estremista del movimento), che portarono alla carcerazione del loro “Ambasciatore” Richard McLaren.
La peculiarità texana. Una causa, quella separatista, che ha radici lontane: «Gli aneliti secessionisti del Texas – spiega Stefano Luconi, docente di Storia degli Stati Uniti presso le Università di Padova e Firenze – sono alimentati dalla peculiarità dell’esperienza storica di questo Stato, l’unico dell’Unione ad essere stato sovrano e indipendente, tra il 1836 e il 1845, e l’unico che scelse autonomamente di aderire all’Unione stessa. C’è anche da sottolineare che l’orientamento secessionista è collocabile in ambienti conservatori, che accusano il governo federale di essere controllato da politici “radicali”. Non a caso, il separatismo texano è rinato durante l’amministrazione del democratico Clinton, negli anni Novanta, e ora, con Obama presidente».
Idee chiare. Il “Texas Nationalist Movement” (TNM), una delle correnti che formavano il gruppo della Repubblica del Texas, è l’organizzazione più grande dello Stato americano e conta più di 250mila aderenti tra iscritti e sostenitori esterni. È finanziata, come leggiamo dal suo manifesto, da donazioni pubbliche e volontarie. Navigando in rete scopriamo che i suoi attivisti partecipano a sit-in, guidano manifestazioni, parlano in radio e diffondono il loro messaggio in maniera capillare, dai gadget fino alle petizioni on-line: l’ultima degna di nota è datata 2012 quando, assieme ai separatisti della Louisiana, il TNM ha chiesto l’indipendenza alla Casa Bianca, dopo una regolare raccolta di firme. Secondo un sondaggio della Reuters, elaborato nel 2014, il 34 per cento circa dei texani sarebbe favorevole alla secessione. Mentre per il sito web dei nazionalisti i cittadini indecisi sarebbero solo il 16 per cento. I membri del movimento ritengono che il Texas sia stato, quasi duecento anni fa, irregolarmente annesso agli Stati Uniti e che sia in grado, oggi, di diventare una Repubblica autonoma, lavorando al cambiamento in ambito politico, culturale ed economico: «Vogliamo una vita migliore per noi e i nostri figli – dicono – e vogliamo liberarci dal governo dell’Unione, che ci soffoca con il debito pubblico ed è pieno di burocrati». Un po’ “Roma ladrona” alla texana, insomma.
Indipendenza economica. L’ipotesi più suggestiva, comunque, è quella di una piena autosufficienza dal punto di vista economico: «Abbiamo tutto quello che serve non solo per sopravvivere, ma per prosperare. Sappiamo che lo stesso spirito che ci ha portato allo sviluppo ci porterà a traguardi ancora maggiori come Nazione indipendente». Preso da solo, il Texas, con oltre 25 milioni di abitanti, è al tredicesimo posto al mondo per fatturato, grazie alle ricchezze del sottosuolo e alla ricerca tecnologica. Perfino il prestigioso magazine “Forbes”, un paio di anni fa, ha provato a seguire questa idea e ad analizzare lo Stato del Sud come una Repubblica indipendente. In costante crescita dopo la crisi finanziaria del 2008, il Texas gode di un’economia florida, perfetto mix tra industria, agricoltura e terziario, ed è leader mondiale nel campo della difesa, tanto che se investisse un minimo nel settore diventerebbe la quinta potenza militare mondiale, davanti a Paesi come Gran Bretagna, Francia e Germania. Ma il suo punto di forza sarebbe ovviamente quello dell’energia. Energia data dal petrolio, dal gas naturale, dal vento. Che consentirebbe alla ipotetica Repubblica un’autosufficienza invidiabile. E non dimentichiamo il capitale umano e lavorativo che attirerebbe grazie alla ricerca e alle leggi più permissive nei confronti dell’immigrazione.
Scenari futuri. Nonostante le premure dell’Fbi e la preoccupazione di una deriva violenta, per ora il “nuovo” movimento indipendentista texano si limita ad organizzarsi e a farsi sentire in maniera pacifica, sperando magari di convincere sempre più cittadini ad una svolta. Lo scenario di una “Repubblica del Texas” è piuttosto futurista. Intanto, però, i separatisti continuano a produrre pregiate monete e a riunirsi nel loro “Parlamento”.