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Diritto di critica | November 14, 2024

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La parabola (discendente) di Antonio Ingroia - Diritto di critica

Le ultime notizie su Ingroia lo vedono come probabile nuovo indagato per una vicenda relativa ad alcune assunzioni nella partecipata siciliana che gestisce il sistema informatico della Regione Siciliana, Sicilia e-Servizi.

Ma negli ultimi giorni l’ex pm antimafia è finito sui giornali anche per un altro motivo, per la aver accettato l’incarico come avvocato di Augusto La Torre, boss del clan dei Chiuovi di Mondragone, alleato dei Casalesi ed egemone nell’alto Casertano, nel basso Lazio e lungo la costa domizia tra il 1980 e gli inizi dei Duemila. A chi gli obietta che questa scelta contrasta con il suo passato di pubblico ministero antimafia, Ingroia risponde che Augusto La Torre adesso è un pentito, diversamente non avrebbe mai accettato l’incarico.

Sarà anche vero ma certamente il tutto stride con i ricordi di un Ingroia paladino della verità storica sulla trattativa Stato-mafia. Di Augusto La Torre, Il Giornale nei giorni scorsi ha sottolineato infatti come si tratti di un individuo “autoaccusatosi di una quarantina di omicidi, con le vittime crivellate di colpi, gettate nei pozzi di campagna e dilaniate con le bombe a mano, per smembrarne i corpi e lasciarli a marcire sotto acqua e terra”. Che venga difeso da Ingroia – nonostante sia un pentito – ammettiamolo, stride.

Lo stesso Roberto Saviano, nel luglio del 2012, definì La Torre su Facebook «un pentito pieno di lati ambigui: smargiasso e feroce, è arrivato a far pentire l’intero clan per ricevere sconti di pena, in cambio della possibilità di uscire tutti dal carcere dopo una manciata di anni e conservare un potere economico legale, avendo ormai demandato il potere militare ad altri. Il boss, pur se pentito, dal carcere dell’Aquila tempo fa chiedeva anche danaro: aggirando i controlli scriveva lettere di ordini e richieste».

Prima di arrivare ad essere avvocato di un pentito di camorra, però, l’ex pm antimafia è passato anche attraverso Rivoluzione civile, un progetto politico che non ha avuto il successo sperato – nonostante le premesse in cui si era ritrovata gran parte della sinistra (anche giornalistica) non entrò in Parlamento e alla fine si sciolse. La nota del maggio 2013, recitava: “I soggetti che hanno dato vita a Rivoluzione Civile hanno deciso all’unanimità di considerare conclusa questa esperienza. Il risultato insoddisfacente delle elezioni politiche del febbraio scorso ha indotto ognuna delle componenti a una riflessione profonda della nuova fase politica al proprio interno […] “Si è preso atto che le scelte strategiche future dei singoli soggetti sono incompatibili con la prosecuzione di un progetto politico comune, quanto meno nell’immediato. Resta intatta la stima reciproca tra tutte le forze che hanno dato vita a Rc e la volontà di mantenere comunque interlocuzioni finalizzate al profondo cambiamento politico, culturale e sociale dell’Italia”. A firmarla furono: Antonio Ingroia (Azione Civile), Angelo Bonelli (Verdi), Luigi De Magistris (Movimento Arancione), Oliviero Diliberto (Pdci), Antonio Di Pietro (Idv), Paolo Ferrero (Prc) e Leoluca Orlando (Rete2018).

Il tutto seguiva una carriera come pm a Palermo, in prima linea contro Cosa Nostra, da allievo di Paolo Borsellino qual è Ingroia. E viene da chiedersi se proprio Paolo Borsellino avrebbe mai accettato un incarico come avvocato di un pluriomicida pentito di mafia. Come dire: una scelta – quella di Ingroia – tanto legittima quanto inopportuna per chi l’ha seguito e conosciuto in tutti questi anni di impegno civile, politico e prima ancora come magistrato.

@emilioftorsello