Per Birdman arrivano gli Oscar. La nostra recensione al film
Un piano sequenza continuo, un labirinto di cunicoli e corridoi, quinte e soppalchi teatrali in cui i protagonisti si inseguono, si prendono e si lasciano continuamente. Una sorta di palcoscenico nel palcoscenico dove vanno in scena i drammi e le debolezze di una compagnia di personaggi che a loro volta lavorano – personaggi nel personaggi – alla rappresentazione di uno dei racconti di Carver. Birdman – il film di Alejandro González Iñárritu, con Michael Keaton, Zach Galifianakis, Edward Norton che ieri è stato premiato con 4 premi Oscar – è una pellicola rara che racconta la storia una rivincita, di una redenzione, della capacità di rialzarsi e realizzarsi nonostante i colpi inferti dalla vita.
Micheal Keaton è eccezionale nell’impersonare Riggan Thompson, il protagonista reduce da una serie di film per il grande pubblico – Birdman, appunto – che adesso vuole dimostrare a se stesso e al mondo di essere un attore vero e capace di recitare in un teatro, lontano dai costumi di gomma e su un soggetto impegnativo come può esserlo un racconto di Raymond Carver. La sua è la storia di una rivincita, una sorta di redenzione dai fallimenti, sia nella vita personale – il rapporto conflittuale e semiassente con la figlia – che professionale: molti lo conoscono solo come l’uomo-uccello, una sorta di supereroe al centro di film per un pubblico di massa.
Eppure è proprio quella celebrità ormai perduta che Riggan Thompson insegue di nuovo, ma questa volta con la speranza che gli derivi da una piece teatrale di livello, di cui lui è regista e protagonista: un racconto di Raymond Carver, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. A complicare tutto, il timore ossessivo di fallire, di essere considerato “una celebrità, non un attore” – come gli ringhierà in faccia una giornalista del NYTimes -, gli affetti mancati o distrutti, i rischi che sulla scena qualcosa vada storto. Ed è così che le scale, i corridoi, le porte e gli anfratti delle quinte del teatro diventano simbolo e riflesso del labirinto interiore che ciascuno si porta dentro: è qui che – mentre lo spettacolo va in scena – avvengono risse, drammatici chiarimenti, riecheggiano solitudini e si cercano conforti. I protagonisti si scoprono incapaci di essere all’altezza delle proprie aspettative in una vita che scorre via, gravati dai fallimenti personali e dalle aspettative tradite. Il tutto in un unico piano sequenza che non stacca mai ma al contrario si aggira, ricerca, stana i diversi personaggi colti nelle loro solitudini.
Ad assediare i protagonisti, proprio fuori dalle mura del teatro, una società che Iñárritu descrive nelle sue assurdità: ammalata di socialnetwork e tecnologia, capace ormai di osservare e vivere la vita solo attraverso lo schermo di un cellulare (circostanza sottolineata proprio da uno degli attori durante un violento scatto d’ira in scena, mentre urla contro il pubblico già “armato” di smartphone per condividere il “cortocircuito” in atto).
Ed è così che – quando per un inconveniente Riggan si ritrova all’esterno del teatro in mutande e attraversa la folla per rientrare di corsa in teatro e chiudere l’ultima scena – la folla lo riprende, urla, lo inquadra con la telecamera dello smartphone, ne condivide l’immagine in rete. Riggan però è fuori da queste dinamiche impazzite – la figlia gli rimprovera di non essere né su Facebook né su Twitter e sarà lei ad aprirgli un account social in una delle ultime scene del film – per lui conta solo il dimostrare a se stesso di essere un valido attore, realizzando ciò in cui crede – la messa in scena del racconto di Carver – divenuto ormai l’unica ragione di vita, la redenzione da ogni tempesta.