''Alla guerra!'', ma questa volta la miglior strategia non è l'attacco
L’ANALISI – Le bandiere nere dell’Isis sventolano in Libia. Posizionatesi tra il governo “ufficiale” e quello “ufficioso”, le milizie jihadiste che usano (chissà da quanto) il brand del terrore fanno sapere: “siamo a sud di Roma”. E noi? Siamo pronti a combattere.
Dopo Mussolini, il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, forse è stato il primo membro di un governo italiano ad aver usato il verbo “combattere” . Era tanto che non accadeva. Combattere, sia pure sotto l’egida dell’Onu. Le Nazioni Unite, proprio loro. Un’organizzazione internazionale scavalcata su tutti i fronti e sempre più sola davanti alla propria impotenza. Onu di cui, oltretutto, è notoria la “velocità” decisionale.
Non abbiamo ancora sparato un colpo, ma siamo entrati in guerra nel momento esatto in cui il titolare della Farnesina ha rilasciato quella dichiarazione. Subito seguito dal numero uno della Difesa, Roberta Pinotti, pronta a parlare di 5 mila soldati da spedire in Libia, ancora senza avere nemmeno idea di cosa andare a fare, dove, contro chi e contando su quali appoggi. Per fortuna gli interventisti di casa nostra hanno convenuto, quasi subito, che forse è meglio capirci un minimo di più. Non solo di quello che sta accadendo in Libia, ma in tutto il Medio Oriente e in Africa.
Le immagini che girano su internet e mostrano lo sgozzamento (senza censura stavolta, come mai!?) e la decapitazione di 21 cittadini egiziani – l’Egitto ha bombardato il califfato nero e l’alleato russo s’é offerto di inviare i temibili Spetsnaz -, sono obiettivamente raccapriccianti. La crudeltà e l’assenza totale di umanità colpiscono allo stomaco, almeno quanto le teste appoggiate sul corpo delle vittime e il fiume di sangue che sgorga fino al mare. Quelle immagini sembrano fatte apposta per spingere anche chi non ha mai sparato un colpo in vita sua ad imbracciare un fucile e a fare fuoco su quei macellai. Senza alcun senso di colpa o pietà, come estrema ratio per estirpare un male altrimenti ineliminabile.
Eppure quel misto di sangue e sabbia, quella scena così materiale e corporea, è la dimensione che catturandoci non ci fa guardare più in alto. A cosa mira la spettacolarizzazione del terrore, l’esplosione dell’orrore? La Libia – di cui l’Isis per ora occupa una piccolissima parte – è solo un tassello in un mosaico fittamente interrelato, le cui connessioni non possono essere ignorate. Un magma indistinto in cui il caos sembra essere l’unico denominatore comune, mentre dietro, in realtà, si muovono strategie complicate, dettate da una geopolitica in continuo movimento. Con Stati che fanno il doppio e a volte anche il triplo gioco e su cui si saldano gli appetiti e le influenze dei giganti del pianeta, che da anni stanno combattendo guerre in cui la dimensione mediatica rappresenta l’unico volto che ci è dato conoscere. Il che non aiuta.
Andrebbe chiarita molto meglio di quanto non si faccia, ad esempio, l’eterna partita tra sunniti e sciiti. L’Arabia Saudita, il Qatar, la Giordania e l’Egitto filo russo, la Siria, l’Iran con la sua propaggine libanese di Hezbollah, il dilaniato Iraq e l’odiato Kurdistan, per non parlare della Turchia, perseguono tutti una politica diversa: di espansione, di difesa e a volte di sopravvivenza. Devono fare i conti con l’appoggio o l’ostilità – in alcuni casi con entrambi – della Casa Bianca e con la ricerca di alleati e di sbocchi al mare, attuata dal Cremlino. Senza dimenticarsi della influenza economica di Pechino. Il tutto, come sempre, al netto della questione israeliana.
Per non fare passi falsi dovremmo decodificare il rapporto che l’Isis ha rispetto ad ognuno degli attori in gioco. Come e perché l’ultima creazione integralista è sorta quasi in concorrenza con Al Qaeda e più simile alla setta Boko Haram che inonda di sangue la Nigeria. Quali sono i suoi rapporti con l’ambigua Fratellanza musulmana e i suoi numerosi sodali occidentali. Davanti ai film horror che ci inviamo i jihadisti neri chiediamoci perché a cadere sotto i colpi delle rivoluzioni sono i regimi meno legati all’integralismo, quelli più laici, per intenderci. O forse sarebbe una domanda inutile. Dato che aprirebbe scenari dominati da spionaggio e intelligence. Utilissimi, in assenza di risposte semplici e univoche, per derubricare all’istante ogni questione complessa a mera dietrologia d’accatto. Muovendoci in mezzo ai dubbi, tuttavia, vale ancora più la pena di usare il cervello. E non per cercare un’azione diplomatica con l’Is.
Col disprezzo della vita, con quella chiusura ermetica e impermeabile a tutti i significati più profondi della nostra cultura, non è possibile trattare. Meglio tenere presente quello a cui ci esponiamo. Quanti jihadisti arriveranno e quante cellule dormienti si potrebbero risvegliare in queste ore nel nostro Paese? Più che a un’invasione via mare (al momento poco credibile), più che a temibili ordigni per via aerea (da non escludere), il pericolo arriva da atti di terrorismo pari a quelli già avvenuti in Francia e in Danimarca.
Il verificarsi di un attentato va purtroppo messo in conto, a prescindere da un nostro impegno bellico. Ma, spostarci noi in Libia, pensando di poter prevenire un attacco, sarebbe un grosso errore. Soprattutto se, come sembrerebbe, non abbiamo chiaro con chi possiamo tentare un dialogo e con chi no.
Tra le forze in campo in Libia, infatti, l’Isis non è preponderante. Si muove in mezzo a due eserciti e a un insieme di bande contrapposte, spesso unite solo da un comune sentire antioccidentale. È il lascito di quel grosso abbaglio che sono state le rivoluzioni arabe e dell’illusione che togliendo di mezzo un assassino e un dittatore come Gheddafi si compisse un passo importante verso la democrazia.
Eccola la democrazia in Libia. Un territorio grande sei volte l’Italia, dove ognuno può accaparrarsi un feudo con i suoi pozzi, i suoi territori, le sue armi e i suoi porti da cui far partire migliaia di migranti. Due parlamenti che si fronteggiano: un governo filo occidentale a Tobruk e uno islamico a Tripoli, vicino alla Fratellanza musulmana. Bande di predoni che più che alla religione guardano alle proprie convenienze. Forze in campo difficili da distinguere tra loro che transitano da un’insegna all’altra, secondo una scala di integralismo ad intensità variabile che passa dai qaedisti fino all’Isis. Intervenire in questo quadro, magari da soli, è impensabile.
Nessuno conosce la reale efficienza delle nostre forze armate – in contesti simili, tra l’altro, hanno fallito anche russi e americani – e nessuno può dire se siamo in grado di gestire un simile impegno bellico.
Ma soprattutto, vedendo quelle persone scannate sulla spiaggia, viene da chiedersi se un nemico che disprezza la vita e non ha paura della morte possa realmente essere sconfitto, o se un’azione congiunta (terra-aria-cielo) non apra piuttosto un baratro peggiore: quello della guerriglia casa per casa, sanguinaria, imprevedibile e pressoché impossibile da sradicare.
Calarsi in un inferno simile per noi sarebbe uno shock. Parliamo di un Paese in guerra da anni, dove se esplode una bomba è quasi normale, dove nessuno si ferma a ricordare il singolo episodio perché ce ne sarebbero troppi da ricordare, dove i pezzi dei morti quotidianamente dilaniati dalle armi vengono raccolti dentro un fazzoletto e via a combattere di nuovo.
Si tratta di una trappola mortale. Impantanarci in una odissea di queste proporzioni, magari bombardando l’obiettivo sbagliato e diventando noi stessi il bersaglio grosso utile a unire ogni rivendicazione anti occidentale, è improponibile. Potremmo rivivere tante di quelle volte Nassiriya da pentircene per sempre.
Certo è che se verremo attaccati dovremo difenderci. E adesso, con gli americani restii ad intervenire in Libia (una strana costante, nemmeno dopo la morte dell’ambasciatore Stevens sono intervenuti con decisione) viviamo appesi a un dubbio: che facciamo?
La nostra Costituzione ripudia la guerra, almeno quella d’attacco. Chiamandole “missioni di pace”, in realtà, abbiamo combattuto tante volte. Guerra preventiva magari, secondo il vecchio adagio per cui la miglior difesa è l’attacco. Forse vale la pena attendere che quel colosso dai piedi d’argilla chiamato Onu si svegli, ma conoscendolo potrebbe essere troppo tardi. A quell’ora potremmo essere già partiti, imbarcati, per necessità o per vendetta, in una missione di quelle che iniziano in un giorno preciso ma finiscono in data ancora da destinarsi.