Renzusconi, perché tra i due litiganti solo il terzo gode
di Virgilio Bartolucci | 22 Gen 2015Aggiungi questo articolo al tuo Magazine su Flipboard
L’ANALISI – L’aula di palazzo Madama ha detto si al “supercanguro”, l’emendamento che taglia più di 35 mila emendamenti all’Italicum. Con alcune modifiche, ma senza stravolgimenti, l’iter della nuova legge elettorale prosegue il suo cammino.
Il salto del canguro e l’ipotesi Renzi bis. I due emendamenti di Michele Gotor di modifica al testo sulle nomine bloccate vengono bocciati, mentre il super emendamento di Esposito passa con i voti di Forza Italia e un esecutivo che sta cambiando pelle si avvale dei voti dell’opposizione per avere la meglio sulla minoranza interna.
Renzi cerca di tranquillizzare tutti e ripete che un governo con FI non ci sarà mai, ma intanto i 43 voti azzurri rimpiazzano i dissidenti dem e di fatto – inutile negarlo – dopo il patto del Nazareno e le successive sedute a due, adesso il “Renz-usconi” sembra qualcosa di più di una battuta.
L’opposizione si organizza. Dall’altra parte Bersani riunisce i 140 parlamentari Pd appartenenti alle diverse correnti di opposizione e tenta di rivitalizzare la vecchia “ditta” con atteggiamenti ambivalenti. A tratti sembra minacciare un’uscita imminente, ma poi nega, “la scissione non esiste, questa è casa mia”. Parole inequivocabili, capaci di tacitare finanche l’accorato appello con cui la madre di Civati cerca di spingere quell’eterno dissidente di suo figlio a prendere una decisione.
Schermaglie per il Colle. Non è un mistero per nessuno che le strategie messe in campo mirino tutte al voto per il Quirinale. È lì che non può passare un nome voluto e caro solo a Renzi e all’odiato sodale. Per la minoranza dissidente del Pd, infatti, si tratterebbe di consegnarsi mani e piedi ad una “dittatura” che la relegherebbe al ruolo di comparsa. In questo senso il voto a palazzo Madama è stato fondamentale per far intendere al “rottamatore” che la salita verso il Quirinale non sarà una passeggiatina in solitaria.
Adesso per il Colle il presidente del Consiglio a chi si appellerà? La meta della quarta votazione decisiva per non registrare un fallimento dei democratici può essere anche allungata più in là, ma, senza un Pd unito, il segretario sarebbe costretto a chiedere il soccorso del Cavaliere che, come più volte hanno ripetuto i suoi, non vuole certo “un altro comunista al Quirinale”.
Tra le braccia del caimano. Pur incassando una sconfitta, la minoranza ha mostrato chiaramente come Matteo Renzi sia oramai nelle mani dell’uomo con cui ha stretto i patti del Nazareno, lo stesso che per 20 anni è stato l’incubo non solo di chiunque si considerasse di sinistra, ma anche solo semplicemente democratico.
Questo avvicinamento – che le più fosche previsioni vorrebbero foriero di un Renzi bis con aggiunta di ministri azzurri – arriva nel momento peggiore per il consenso del premier che, dicono i sondaggi, ultimamente ha perso molto e moltissimo rispetto al dopo Europee.
Uno snodo cruciale. Quanto successo in Senato è un passaggio politicamente delicatissimo e molto significativo per la legislatura in corso, ma è anche uno di quei momenti di passaggio in cui le scelte tattiche della politica dovrebbero rispecchiare la drammaticità del momento e finiscono invece per assumere dei risvolti quasi comici.
Tra i due litiganti Silvio gode. Da tutta questa storia, infatti, Berlusconi è l’unico a guadagnarci e dato l’aut-aut a Fitto e agli evanescenti “fittiani” è già passato all’incasso. Mentre tutti gli altri protagonisti, da Renzi fino a Gotor, ora sembrano attanagliati dal dubbio di aver fatto o meno la cosa giusta.
Le paure del giovane Renzi. Renzi capisce di essersi spinto alla fine proprio là dove i suoi detrattori lo avevano da subito collocato, tutto a destra vicino al Cavaliere. Mastica amaro il premier, mentre cerca di sminuire l’innegabile abbraccio e di scaricare sugli avversari interni la responsabilità di una mossa imbarazzante anche per il giovane governo del fare. Quello che non tratta perché “non arretra di un centimetro” e sbandiera un utilitaristico “carpe diem” negando ogni ripercussione e commistione futura.
Da Davos Renzi ha fato sapere che i “frenatori” non fermeranno il treno delle riforme. Ha paura in realtà, e molta, ma sa di dover continuare per forza a giocare il ruolo del vincente che va all’attacco perché è il giovane “frontman” dell’esecutivo del cambiamento, del “governo del coraggio”. Un immagine, quella del capitano coraggioso, tutt’altro che casuale. Usando il termine coraggio, infatti, fa implicita ammissione dei rischi a cui si è esposto l’esecutivo.
Un crinale pericolosissimo. Soprattutto adesso che il nodo dei patti va stringendosi al pettine e lui si è spinto su un baratro pericolosissimo. Un cono di luce sinistra (anche se il termine oggi non sembra proprio il più adatto) in cui è facile intravedere un suo approdo a destra. L’avverarsi di una metamorfosi del Pd così netta e repentina da sorprendere anche chi, con l’avvento del “rottamatore”, ci aveva scommesso. E di botto, adesso tutto sembrerebbe appare più chiaro.
Renzi dopo aver fatto finta di voler abbattere il nemico numero uno, ha prima affossato le forze e i valori più vicini al patrimonio storico e culturale della sinistra, fino a indossare le “indicibili” vesti dell’alleato del “caimano”. L’uomo che, in spregio all’opposizione interna, è riuscito prima resuscitare e poi a riabilitare.
I dissidenti attanagliati dai dubbi. Ma se Renzi ha poco da ridere, anche tra i dissidenti asserragliati dietro all’emendamento Gotor e alla lotta per le preferenze – che storicamente la sinistra non ha mai particolarmente amato – fioccano i dubbi e i distinguo.
Innanzitutto sul ruolo interpretato: ancora una volta la parte degli sconfitti nel paese dei vincenti. Non è proprio un’ipoteca sul futuro. I dissidenti sanno perché sono divenuti minoranza in casa loro e sanno che ad attrarre il popolo dem verso Renzi è stata in gran parte la loro annunciata rottamazione.
Parola d’ordine: restare nel Pd. Ma, soprattutto, adesso sono loro a dover decidere in che modo restare assieme all’inviso segretario. Dato che una cosa è certa: dal Pd non vuole andare via nessuno.
E, allora, remare contro alla leadership per indebolirla, un domani potrebbe esporre gli oppositori all’accusa di un logoramento sistematico e autolesionista. Di essere i protagonisti dell’ennesimo psicodramma suicidario tanto caro alla più recente tradizione democratica.
Si genera così una situazione a dir poco surreale, in cui le opposizioni interne a difesa dei valori originari della sinistra, costringono Renzi a scegliere tra loro e il Cavaliere, ma sempre col timore di far saltare la baracca, dato che “di doman non c’è certezza”. Un difficile equilibrio, in cui un’espulsione per mano renziana (che non arriverà mai) sarebbe un insperato attestato di purezza, mentre un allontanamento volontario è visto come una rovina.
La condanna ad anni di vagheggiamento nelle indefinite praterie di una sinistra alternativa tutta da rifare. Un calvario triste, tra le mani tese controvoglia dai vendoliani dello “human factor” e addirittura con la possibilità di incrociare gente come Marco Rizzo (fino a poco prima salutata con sorrisetto ironico dalle finestre della bouvette) che ripete parole desuete e ormai scomparse da anni dal vocabolario dem. Tipo comunista, ad esempio.