Attentato a Sidney, questa volta l'Isis non c'entra
L'attentatore, ucciso nel blitz, era uno squilibrato molto distante dalla figura ortodossa del tipico fondamentalista. Non esistono elementi per ipotizzare che si tratti di un attentato coordinato
di Giovanni Giacalone | 16 Dic 2014Aggiungi questo articolo al tuo Magazine su Flipboard
Aveva numerosi precedenti penali, era disturbato e pericoloso, ma non era sotto sorveglianza e così ha potuto tranquillamente recarsi armato all’interno del Lindt Cafe, nel distretto finanziario di Sydney e tenere in ostaggio per quasi 17 ore clienti e dipendenti. Stavolta però l’Isis non c’entra niente, non si tratta di un seguace di al-Baghdadi di ritorno dalla Siria o di un neo-convertito in preda a deliri ideologici ma di “Sheikh” Man Haron Monis, quarantanovenne iraniano in asilo in Australia dal 1996 e ben noto alle autorità locali per una sfilza di reati di non poco conto.
Un folle scambiato per militante islamico. Autoproclamatosi guida spirituale, aveva fatto pubblicare alcuni annunci su un giornale locale, dove si presentava come esperto in astri, numeri e magia nera (tutte cose vietate dall’Islam), attirando alcune donne che aveva poi aggredito e ricavandone così una serie di denunce per violenza sessuale (più di quaranta). “Sheikh Haron” aveva poi inviato lettere offensive ai familiari dei soldati australiani morti in Afghanistan e negli attentati di Bali e nel 2013 era inoltre stato accusato di aver ucciso l’ex moglie a colpi di pugnale. Recentemente, in un post su internet, si era dichiarato sunnita riferendosi agli sciiti in modo offensivo: “Ero rafidi (termine peggiorativo con il quale si indicano gli sciiti) ma ora sono musulmano”.
L’assedio. Fin dall’inizio dell’assalto era evidente che si aveva a che fare con un terrorista dalle modalità piuttosto insolite, se non altro per una delle due richieste fatte, quella di ricevere una bandiera dell’Isis (l’altra era di parlare con il primo ministro Tony Abbott), evidentemente non soddisfatto di quella che aveva portato da casa, nera con la shahada in bianco, frequentemente usata da gruppi come al-Qaeda e Hizb ut-Tahrir. L’assedio è iniziato alle 9:45 della mattinata di lunedì e si è concluso soltanto poco prima delle 3 di notte; quasi diciassette ore di inferno con un bilancio di tre morti (l’attentatore, la manager del bar e un’avvocatessa) e di diversi feriti. L’edificio era stato circondato dalle unità speciali della polizia poco dopo l’inizio dell’assalto e l’attentatore era stato fotografato e ripreso in diverse occasioni dietro la vetrata del locale, ma i cecchini non avevano letteralmente mosso un dito. A quanto pare le autorità australiane volevano “evitare un bagno di sangue”, optando per una improbabile negoziazione con un soggetto evidentemente instabile che difficilmente si sarebbe arreso. Forse l’assedio si poteva concludere prima e senza vittime tra gli ostaggi, ma non è andata così.
Terrorista, folle, lupo solitario. In episodi di questo tipo si sente spesso parlare di “terrorismo solitario fai da te”, di “lupi solitari”, ma in questo caso si è trattato di terrorismo? O dell’azione di uno squilibrato mal organizzato che voleva emulare precedenti come quello di Ottawa, di Montreal, di Tolosa o di Bruxelles? Se ci atteniamo alla definizione di terrorismo elaborata da Boaz Ganor dell’ICT di Herzliya, ovvero “l’uso deliberato di violenza contro civili per fini politici”, allora è difficile dirlo con certezza. Munis aveva chiesto di parlare con il primo ministro australiano Tony Abbott ma le motivazioni non sono chiare. L’esposizione del vessillo nero con la Shahada sulla vetrata del locale è senza dubbio un gesto ideologico, così come quello di scrivere lettere offensive ai familiari dei militari caduti, ma bisognerebbe analizzare fino a che punto e dove subentra invece la dimensione strumentale e personale. Munis aveva numerosi precedenti penali, esattamente come altri terroristi che si sono resi responsabili di attentati (basti pensare a Mohamed Merah o Mehdi Nemmouche), era disturbato ma noto anche come personaggio folkloristico che in diversi casi aveva mostrato atteggiamenti ben lontani dalla presunta ortodossia di certi fanatici. Non risultano inoltre al momento contatti con ambienti e personaggi radicali legati all’Isis, né a livello personale e neanche sul web.
Insomma, sembra il tipico caso dove follia personale e strumentalizzazione ideologica si fondono in un ibrido non semplice da definire e forse dopo tutto non è neanche necessario. Ciò su cui vale invece la pena di riflettere è se tutto ciò poteva essere prevenuto o comunque risolto in altro modo.
di Giovanni Giacalone | 16 Dic 2014Aggiungi questo articolo al tuo Magazine su Flipboard
Aveva numerosi precedenti penali, era disturbato e pericoloso, ma non era sotto sorveglianza e così ha potuto tranquillamente recarsi armato all’interno del Lindt Cafe, nel distretto finanziario di Sydney e tenere in ostaggio per quasi 17 ore clienti e dipendenti. Stavolta però l’Isis non c’entra niente, non si tratta di un seguace di al-Baghdadi di ritorno dalla Siria o di un neo-convertito in preda a deliri ideologici ma di “Sheikh” Man Haron Monis, quarantanovenne iraniano in asilo in Australia dal 1996 e ben noto alle autorità locali per una sfilza di reati di non poco conto.
Un folle scambiato per militante islamico. Autoproclamatosi guida spirituale, aveva fatto pubblicare alcuni annunci su un giornale locale, dove si presentava come esperto in astri, numeri e magia nera (tutte cose vietate dall’Islam), attirando alcune donne che aveva poi aggredito e ricavandone così una serie di denunce per violenza sessuale (più di quaranta). “Sheikh Haron” aveva poi inviato lettere offensive ai familiari dei soldati australiani morti in Afghanistan e negli attentati di Bali e nel 2013 era inoltre stato accusato di aver ucciso l’ex moglie a colpi di pugnale. Recentemente, in un post su internet, si era dichiarato sunnita riferendosi agli sciiti in modo offensivo: “Ero rafidi (termine peggiorativo con il quale si indicano gli sciiti) ma ora sono musulmano”.
L’assedio. Fin dall’inizio dell’assalto era evidente che si aveva a che fare con un terrorista dalle modalità piuttosto insolite, se non altro per una delle due richieste fatte, quella di ricevere una bandiera dell’Isis (l’altra era di parlare con il primo ministro Tony Abbott), evidentemente non soddisfatto di quella che aveva portato da casa, nera con la shahada in bianco, frequentemente usata da gruppi come al-Qaeda e Hizb ut-Tahrir. L’assedio è iniziato alle 9:45 della mattinata di lunedì e si è concluso soltanto poco prima delle 3 di notte; quasi diciassette ore di inferno con un bilancio di tre morti (l’attentatore, la manager del bar e un’avvocatessa) e di diversi feriti. L’edificio era stato circondato dalle unità speciali della polizia poco dopo l’inizio dell’assalto e l’attentatore era stato fotografato e ripreso in diverse occasioni dietro la vetrata del locale, ma i cecchini non avevano letteralmente mosso un dito. A quanto pare le autorità australiane volevano “evitare un bagno di sangue”, optando per una improbabile negoziazione con un soggetto evidentemente instabile che difficilmente si sarebbe arreso. Forse l’assedio si poteva concludere prima e senza vittime tra gli ostaggi, ma non è andata così.
Terrorista, folle, lupo solitario. In episodi di questo tipo si sente spesso parlare di “terrorismo solitario fai da te”, di “lupi solitari”, ma in questo caso si è trattato di terrorismo? O dell’azione di uno squilibrato mal organizzato che voleva emulare precedenti come quello di Ottawa, di Montreal, di Tolosa o di Bruxelles? Se ci atteniamo alla definizione di terrorismo elaborata da Boaz Ganor dell’ICT di Herzliya, ovvero “l’uso deliberato di violenza contro civili per fini politici”, allora è difficile dirlo con certezza. Munis aveva chiesto di parlare con il primo ministro australiano Tony Abbott ma le motivazioni non sono chiare. L’esposizione del vessillo nero con la Shahada sulla vetrata del locale è senza dubbio un gesto ideologico, così come quello di scrivere lettere offensive ai familiari dei militari caduti, ma bisognerebbe analizzare fino a che punto e dove subentra invece la dimensione strumentale e personale. Munis aveva numerosi precedenti penali, esattamente come altri terroristi che si sono resi responsabili di attentati (basti pensare a Mohamed Merah o Mehdi Nemmouche), era disturbato ma noto anche come personaggio folkloristico che in diversi casi aveva mostrato atteggiamenti ben lontani dalla presunta ortodossia di certi fanatici. Non risultano inoltre al momento contatti con ambienti e personaggi radicali legati all’Isis, né a livello personale e neanche sul web.
Insomma, sembra il tipico caso dove follia personale e strumentalizzazione ideologica si fondono in un ibrido non semplice da definire e forse dopo tutto non è neanche necessario. Ciò su cui vale invece la pena di riflettere è se tutto ciò poteva essere prevenuto o comunque risolto in altro modo.