Quel bisogno di sentirsi amati, “senza nessuna pietà”
Recensione della nuova pellicola di Michele Alhaique
di Jleana Cervai
«Un’intera nottata / buttato vicino / a un compagno / massacrato / con la sua bocca / digrignata / volta al plenilunio / con la congestione / delle sue mani / penetrata / nel mio silenzio / ho scritto / lettere piene d’amore. / Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita». Così recita una celebre poesia di Ungaretti.
Il contrasto fortissimo di emozioni superbamente racchiuso in quei versi si rispecchia con sorprendente analogia nel film di Michele Alhaique, che ritrae l’esistenza nell’apparente contraddizione dei suoi estremi. Ma non è solo questo il punto in comune tra Veglia e il mondo dove vivono Mimmo, Tania e tutti i personaggi che ruotano intorno a loro: lo stato di guerra, l’impietosa regola dell’homo homini lupus, la legge del più forte e la dittatura della violenza, la paura costante e l’istinto dell’autodifesa, la fanno da padrone in entrambi i contesti.
L’essenza più intima e profonda di questo film che scorre ruvido senza correre e che obbliga lo spettatore all’attrito col male nel suo volto più miserabile e rude, è forse una sinestesia di sguardi e di silenzi. Non abbiamo bisogno di conoscere il passato di Mimmo per comprenderne i sentimenti, ci basta leggerli negli occhi di Pierfrancesco Favino, ci basta ascoltare il rumore dei suoi pensieri. Non sappiamo e non sapremo quanto il suo personaggio sia stato libero di scegliere prima di percorrere la cattiva strada, più imposta che suggerita peraltro, dallo zio che lo ha allevato e che si è arricchito grazie alla speculazione edilizia e al crimine. Siamo però costretti a prendere atto della sua metànoia fin dall’inizio del film attraverso la sua mimica e quella sua comunicazione verbale scabra, talvolta pungente, raramente aspra, costantemente ridotta al minimo. Stanco di stare dalla parte degli oppressori, di esercitare una violenza gratuita in cui non crede e che non gli appartiene, Mimmo insegue la libertà e un’altra possibilità di vita.
Ed ecco che il destino mette sulla sua strada Tania (Greta Scarano), escort di Latina che proprio lui deve accompagnare da suo cugino Manuel, oppressore convinto: Tania diventa il punto di svolta oltre il quale per Mimmo non è più possibile tornare indietro. Circondati dall’umanità semplice, a tratti primitiva, a tratti grottesca e perfino umoristica della periferia romana, Mimmo e Tania risaltano come creature particolari che da quello sfondo passo dopo passo si staccano, come bassorilievi che a poco a poco acquistano sempre più volume, fino a diventare figure a tutto tondo, fino a sganciarsi dalla materia e ad acquisire una sembianza eterea. In loro due il fanciullino di Pascoli è ancora affacciato a guardare dalla finestra un altrove deserto e labirintico di cui smarrisce le coordinate: Mimmo, imponente nel fisico, dorme con la luce accesa; Tania, tolti il trucco e gli “abiti di scena”, si rivela più ragazzina indifesa, morbidamente naïf, che femme fatale.
In una realtà disumanizzata e più di una volta ferina, Tania e Mimmo difendono la dignità del loro essere persone: la fierezza dei loro sguardi svetta sullo squallore del buio circostante e li illumina di una luce che sembra sconfinare nella sacralità dell’antica pietas. Se quest’ultima era “sacra, rispettosa reverenza erga deos ed erga parentes”, dobbiamo riconoscere che Mimmo arriva a esercitarla con naturalezza, tanto nel ricordo di suo padre, quanto nel non sfuggire alla propria coscienza e nell’adempiere a ciò che ritiene un dovere. E Senza nessuna pietà si trasforma per incanto in un inno alla Pietas, attraverso l’innocenza, la fermezza, la forza, la pietà nel senso più alto, dello sguardo di Mimmo, che diventa un angolo di paradiso combattivo e tenace fra le tenebre dell’inferno. Simile a quella che potrebbe essere considerata l’immagine simbolo dell’intero film: la schiuma candida, cristallina e sfavillante, avvolta dal nero notturno e spaventoso, delle onde inquiete di un mare catartico.
Ma perché la redenzione sia completa sarà necessario veder cadere il protagonista nella polvere di un tratto di strada che si fa campo di battaglia dei giorni nostri, dopo averlo potuto ammirare nel suo ergersi in piedi come un gigante contro la morte, come un eroe epico che non vuole arrendersi al proprio destino e che non riconosce forza al di sopra di lui, per mantenere l’appuntamento promesso, la parola data, per non spezzare la fides di un foedus amoris. Un destino impietoso, quello di Mimmo. Che gli ruba l’ultimo sguardo. Ma che non gli potrà mai strappare la gioia sincera e tutta interiore, la segreta commozione di un riconoscimento, in quella scena in cui, a bordo di un’automobile, il noir si fa poesia e l’amore, sublime scherzo della sorte, inonda i suoi occhi.
di Jleana Cervai
«Un’intera nottata / buttato vicino / a un compagno / massacrato / con la sua bocca / digrignata / volta al plenilunio / con la congestione / delle sue mani / penetrata / nel mio silenzio / ho scritto / lettere piene d’amore. / Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita». Così recita una celebre poesia di Ungaretti.
Il contrasto fortissimo di emozioni superbamente racchiuso in quei versi si rispecchia con sorprendente analogia nel film di Michele Alhaique, che ritrae l’esistenza nell’apparente contraddizione dei suoi estremi. Ma non è solo questo il punto in comune tra Veglia e il mondo dove vivono Mimmo, Tania e tutti i personaggi che ruotano intorno a loro: lo stato di guerra, l’impietosa regola dell’homo homini lupus, la legge del più forte e la dittatura della violenza, la paura costante e l’istinto dell’autodifesa, la fanno da padrone in entrambi i contesti.
L’essenza più intima e profonda di questo film che scorre ruvido senza correre e che obbliga lo spettatore all’attrito col male nel suo volto più miserabile e rude, è forse una sinestesia di sguardi e di silenzi. Non abbiamo bisogno di conoscere il passato di Mimmo per comprenderne i sentimenti, ci basta leggerli negli occhi di Pierfrancesco Favino, ci basta ascoltare il rumore dei suoi pensieri. Non sappiamo e non sapremo quanto il suo personaggio sia stato libero di scegliere prima di percorrere la cattiva strada, più imposta che suggerita peraltro, dallo zio che lo ha allevato e che si è arricchito grazie alla speculazione edilizia e al crimine. Siamo però costretti a prendere atto della sua metànoia fin dall’inizio del film attraverso la sua mimica e quella sua comunicazione verbale scabra, talvolta pungente, raramente aspra, costantemente ridotta al minimo. Stanco di stare dalla parte degli oppressori, di esercitare una violenza gratuita in cui non crede e che non gli appartiene, Mimmo insegue la libertà e un’altra possibilità di vita.
Ed ecco che il destino mette sulla sua strada Tania (Greta Scarano), escort di Latina che proprio lui deve accompagnare da suo cugino Manuel, oppressore convinto: Tania diventa il punto di svolta oltre il quale per Mimmo non è più possibile tornare indietro. Circondati dall’umanità semplice, a tratti primitiva, a tratti grottesca e perfino umoristica della periferia romana, Mimmo e Tania risaltano come creature particolari che da quello sfondo passo dopo passo si staccano, come bassorilievi che a poco a poco acquistano sempre più volume, fino a diventare figure a tutto tondo, fino a sganciarsi dalla materia e ad acquisire una sembianza eterea. In loro due il fanciullino di Pascoli è ancora affacciato a guardare dalla finestra un altrove deserto e labirintico di cui smarrisce le coordinate: Mimmo, imponente nel fisico, dorme con la luce accesa; Tania, tolti il trucco e gli “abiti di scena”, si rivela più ragazzina indifesa, morbidamente naïf, che femme fatale.
In una realtà disumanizzata e più di una volta ferina, Tania e Mimmo difendono la dignità del loro essere persone: la fierezza dei loro sguardi svetta sullo squallore del buio circostante e li illumina di una luce che sembra sconfinare nella sacralità dell’antica pietas. Se quest’ultima era “sacra, rispettosa reverenza erga deos ed erga parentes”, dobbiamo riconoscere che Mimmo arriva a esercitarla con naturalezza, tanto nel ricordo di suo padre, quanto nel non sfuggire alla propria coscienza e nell’adempiere a ciò che ritiene un dovere. E Senza nessuna pietà si trasforma per incanto in un inno alla Pietas, attraverso l’innocenza, la fermezza, la forza, la pietà nel senso più alto, dello sguardo di Mimmo, che diventa un angolo di paradiso combattivo e tenace fra le tenebre dell’inferno. Simile a quella che potrebbe essere considerata l’immagine simbolo dell’intero film: la schiuma candida, cristallina e sfavillante, avvolta dal nero notturno e spaventoso, delle onde inquiete di un mare catartico.
Ma perché la redenzione sia completa sarà necessario veder cadere il protagonista nella polvere di un tratto di strada che si fa campo di battaglia dei giorni nostri, dopo averlo potuto ammirare nel suo ergersi in piedi come un gigante contro la morte, come un eroe epico che non vuole arrendersi al proprio destino e che non riconosce forza al di sopra di lui, per mantenere l’appuntamento promesso, la parola data, per non spezzare la fides di un foedus amoris. Un destino impietoso, quello di Mimmo. Che gli ruba l’ultimo sguardo. Ma che non gli potrà mai strappare la gioia sincera e tutta interiore, la segreta commozione di un riconoscimento, in quella scena in cui, a bordo di un’automobile, il noir si fa poesia e l’amore, sublime scherzo della sorte, inonda i suoi occhi.