Le ''ragazze'' di Boko Haram, il mondo si è dimenticato di loro
Dopo il rapimento alcune di loro sono riuscite a fuggire. Ma poco meno di 300 potrebbero già essere state vendute sul mercato delle schiave
di Francesco Ruffinoni
Adolescenti come lei, ma con un destino diverso. Loro sono le studentesse rapite dai terroristi di Boko Haram, il 14 aprile scorso, e lei è Malala Yousafzai, giovane attivista pachistana, nota per il suo impegno a favore dell’istruzione e dei diritti civili. “Voglio riportare l’attenzione su questo problema così i leader mondiali manterranno la loro parola e daranno il loro contributo per far tornare quelle studentesse a casa”. Queste le parole di Malala, ragazzina coraggiosa che il 9 ottobre 2012 è stata bersaglio dei proiettili talebani. Una grave ferita alla testa e un intervento chirurgico delicato, però, non sono bastati a fermarla e, qualche settimana fa, pure lei è scesa in campo per le ragazze nigeriane sequestrate dai fondamentalisti, da più di cento giorni ormai, e per sostenere la campagna #bringbackourgirls. Le parole, riferite al Sunday Times sono indicative di come tutta la vicenda stia, lentamente, perdendo vigore mediatico e, purtroppo, pure l’interesse dell’opinione pubblica.
La notizia dimenticata. L’attenzione per una notizia come questa si smarrisce facilmente. Ma il problema, questa volta, non sono solo i media che, immancabilmente, desiderano accontentare i gusti di lettori, uditori e spettatori, bensì l’immobilismo delle potenze mondiali e, in particolare, delle autorità locali: senza particolari colpi di scena è naturale, purtroppo, che un evento perda automaticamente la curiosità della gente.
Il rapimento e le accuse. Lo scorso 14 aprile uomini armati, al soldo di Boko Haram, organizzazione terroristica di stampo jihadista diffusa nel nord della Nigeria, catturano circa 200 studentesse, dopo aver attaccato una scuola secondaria a Chibok, nello stato del Borno, ed aver saccheggiato e incendiato diverse abitazioni nell’aerea circostante. Velleitaria la reazione dei soldati a guardia del villaggio, non più di una quindicina. Circa 50 ragazze riescono a fuggire, ma il 4 maggio altre 11 giovani vengono rapite, sempre dai terroristi di Boko Haram: otto nel villaggio di Warabe e tre a Wala, a cinque chilometri di distanza. Il leader del gruppo, Abubakar Shekau, in un video diffuso online, annuncia, poi, nuove scorribande e l’intenzione di vendere le ragazze come schiave. I governi di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Cina si sono detti disponibili a fornire tutta l’assistenza tecnica, militare e di intelligence necessaria al governo nigeriano, mentre il presidente Goodluck Johnathan e il suo governo finiscono nel mirino delle critiche dell’opinione pubblica: tacciati di immobilismo e negligenza, sono accusati di essere riluttanti nell’infliggere un duro colpo a Boko Haram. Durissimo, a tal proposito, il Jakarta Post, celebre quotidiano indonesiano, accusa il presidente di essersi mosso soltanto dopo la condanna da parte della comunità internazionale.
Dietro a Boko Haram. Ma che tipo di organizzazione è, realmente, quella di Boko Haram? Si tratta di un’organizzazione di stampo jihadista: il nome, un miscuglio fra arabo e hausa significa, a grandi linee, “l’educazione occidentale è sacrilegio”. L’obiettivo del gruppo è quello di costruire uno stato islamico basato su una rigida applicazione della sharia. È importante sottolineare come i suoi membri, prettamente legati al contesto nigeriano, si raggruppino attorno ad un leader di stampo messianico che afferma di parlare a nome di Dio. Una vera e propria setta, quindi, che reca con sé diversi interrogativi. Suor Enza Guccione, religiosa che, da 18 anni, vive a sud della Nigeria e che, attualmente, è la responsabile della comunità di Igbedor, un’isolata cittadina collocata su una isola fluviale tra lo Stato di Kogi e quello di Amambra, pare avere le idee chiare: “Boko Haram è stato sconfitto molti anni addietro. Adesso è solo una sigla dietro la quale si nasconde il terrorismo (islamico o meno) che cerca di destabilizzare il Paese, supportato dalle grandi potenze mondiali le quali forniscono armi che diversamente i terroristi non potrebbero permettersi”. Le super potenze, con i loro grandi interessi, hanno sempre cercato di accaparrarsi le risorse naturali dell’Africa e di altri paesi del mondo, ma queste affermazioni suonano veramente sinistre. Quel che è certo, sicuramente, è che molte delle ragazze, secondo alcune fonti poco meno di trecento, rimangono ancora prigioniere. E il silenzio del mondo sembra, pian, piano, cadere impietoso su di loro.
Argomenti
Boko Haram
di Francesco Ruffinoni
Adolescenti come lei, ma con un destino diverso. Loro sono le studentesse rapite dai terroristi di Boko Haram, il 14 aprile scorso, e lei è Malala Yousafzai, giovane attivista pachistana, nota per il suo impegno a favore dell’istruzione e dei diritti civili. “Voglio riportare l’attenzione su questo problema così i leader mondiali manterranno la loro parola e daranno il loro contributo per far tornare quelle studentesse a casa”. Queste le parole di Malala, ragazzina coraggiosa che il 9 ottobre 2012 è stata bersaglio dei proiettili talebani. Una grave ferita alla testa e un intervento chirurgico delicato, però, non sono bastati a fermarla e, qualche settimana fa, pure lei è scesa in campo per le ragazze nigeriane sequestrate dai fondamentalisti, da più di cento giorni ormai, e per sostenere la campagna #bringbackourgirls. Le parole, riferite al Sunday Times sono indicative di come tutta la vicenda stia, lentamente, perdendo vigore mediatico e, purtroppo, pure l’interesse dell’opinione pubblica.
La notizia dimenticata. L’attenzione per una notizia come questa si smarrisce facilmente. Ma il problema, questa volta, non sono solo i media che, immancabilmente, desiderano accontentare i gusti di lettori, uditori e spettatori, bensì l’immobilismo delle potenze mondiali e, in particolare, delle autorità locali: senza particolari colpi di scena è naturale, purtroppo, che un evento perda automaticamente la curiosità della gente.
Il rapimento e le accuse. Lo scorso 14 aprile uomini armati, al soldo di Boko Haram, organizzazione terroristica di stampo jihadista diffusa nel nord della Nigeria, catturano circa 200 studentesse, dopo aver attaccato una scuola secondaria a Chibok, nello stato del Borno, ed aver saccheggiato e incendiato diverse abitazioni nell’aerea circostante. Velleitaria la reazione dei soldati a guardia del villaggio, non più di una quindicina. Circa 50 ragazze riescono a fuggire, ma il 4 maggio altre 11 giovani vengono rapite, sempre dai terroristi di Boko Haram: otto nel villaggio di Warabe e tre a Wala, a cinque chilometri di distanza. Il leader del gruppo, Abubakar Shekau, in un video diffuso online, annuncia, poi, nuove scorribande e l’intenzione di vendere le ragazze come schiave. I governi di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Cina si sono detti disponibili a fornire tutta l’assistenza tecnica, militare e di intelligence necessaria al governo nigeriano, mentre il presidente Goodluck Johnathan e il suo governo finiscono nel mirino delle critiche dell’opinione pubblica: tacciati di immobilismo e negligenza, sono accusati di essere riluttanti nell’infliggere un duro colpo a Boko Haram. Durissimo, a tal proposito, il Jakarta Post, celebre quotidiano indonesiano, accusa il presidente di essersi mosso soltanto dopo la condanna da parte della comunità internazionale.
Dietro a Boko Haram. Ma che tipo di organizzazione è, realmente, quella di Boko Haram? Si tratta di un’organizzazione di stampo jihadista: il nome, un miscuglio fra arabo e hausa significa, a grandi linee, “l’educazione occidentale è sacrilegio”. L’obiettivo del gruppo è quello di costruire uno stato islamico basato su una rigida applicazione della sharia. È importante sottolineare come i suoi membri, prettamente legati al contesto nigeriano, si raggruppino attorno ad un leader di stampo messianico che afferma di parlare a nome di Dio. Una vera e propria setta, quindi, che reca con sé diversi interrogativi. Suor Enza Guccione, religiosa che, da 18 anni, vive a sud della Nigeria e che, attualmente, è la responsabile della comunità di Igbedor, un’isolata cittadina collocata su una isola fluviale tra lo Stato di Kogi e quello di Amambra, pare avere le idee chiare: “Boko Haram è stato sconfitto molti anni addietro. Adesso è solo una sigla dietro la quale si nasconde il terrorismo (islamico o meno) che cerca di destabilizzare il Paese, supportato dalle grandi potenze mondiali le quali forniscono armi che diversamente i terroristi non potrebbero permettersi”. Le super potenze, con i loro grandi interessi, hanno sempre cercato di accaparrarsi le risorse naturali dell’Africa e di altri paesi del mondo, ma queste affermazioni suonano veramente sinistre. Quel che è certo, sicuramente, è che molte delle ragazze, secondo alcune fonti poco meno di trecento, rimangono ancora prigioniere. E il silenzio del mondo sembra, pian, piano, cadere impietoso su di loro.