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Diritto di critica | November 24, 2024

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Bettini, Renzi e le nuove alleanze per il Pd

Si allarga il campo renziano? Goffredo Bettini ci prova e il suo Campo Democratico ospita al Tempio di Adriano nuove alleanze possibili. Offrendo a qualcuno un suggerimento e a più di qualche altro una mano da stringere nel momento del bisogno. Il tutto però alla maniera bettiniana: con un capovolgimento del senso in cui tutti, nessuno escluso, finiscono per sentirsi parte del successo di Renzi. Il premier, allora, non va più vissuto come un’imposizione, ma diventa una scelta condivisa e le riforme una cosa possibile grazie all’aiuto di tutti.

In questo modo coinvolgere nel medesimo campo Andrea Romano e Gennaro Migliore non è follia, mentre per Enrico Boselli non c’è quasi bisogno, visto che il socialista afferma con naturalezza di aver già votato il PD. Trascinarli a confronto con Matteo Orfini, Sandro Gozi e altri nomi, tra cui quello di Roberto Morassut – altro pezzo importante della Roma veltroniana costruita da Bettini – è un’operazione di ampio respiro che non rinuncia ad essere d’aiuto al premier nell’immediato presente.

E, se è vero che Bettini non si muove mai a caso, di aiuto ne servirà eccome: prima in aula per la riforma del Senato e ancor più nella battaglia che si appresta sull’Italicum. Ma il consenso è un flusso da costruire fuori prima ancora che in parlamento. Bettini è maestro in questo e sa che proprio ora che tutto sembra facile inizia il difficile. Il neo deputato europeo apre gli interventi opponendosi alla “banalizzazione del premier”, a quanti lo hanno descritto “come un pifferaio magico”. La carica innovativa di Renzi va difesa e il partito si deve adeguare iniziando a cambiare. Perché, al di là del 40 e passa per cento, la crisi di rappresentanza resta e i ballottaggi ne sono stati un primo esempio.

Su Renzi gravano diverse incognite: innanzitutto la giustizia, poi le garanzie necessarie perché attorno a Juncker possa nascere una grande coalizione, quindi la messa in pratica da parte della Ue di un piano di investimenti comuni e di una difesa dalla speculazione con l’adozione degli Euro bond. Per far tutto questo – sostiene Bettini – serve un partito leggero ma ad alta intensità, capace di essere la cinghia di trasmissione con la società. Evitando che la protesta di massa dilaghi in un’insurrezione senza ideologie, spinta dalla pura e generalizzata insofferenza ad essere governati, tanto ben delineata da Ivan Krastev.

La decisione solitaria va combattuta, certo, ma il ” cambiare verso” non è questione di autoritarismo, quanto di prendere una decisione. E solo nel decidere la politica ritrova la sua essenza, afferma l’uomo che ha inventato il “modello Roma” dell’era Veltroni ed ha permesso – in tanti non glielo hanno ancora perdonato – a Marino di diventare sindaco. Se Renzi appare autoritario è per il prezzo da pagare per “smummificare” la politica italiana, afferma Bettini.

Non mancano gli inchini e le riverenze al premier nella splendida sala di piazza di Pietra – messa a disposizione dalla Camera di Commercio di Roma, altro tassello importante della Capitale che fu -, ma la voglia di essere parte di un progetto riformista e di poterlo finalmente gridare senza paura di censure di sorta prevale su tutto. È questa – a detta degli intervenuti – una grande differenza rispetto al passato fatto di correnti interne. Nate e cresciute proprio nel vuoto decisionale che il centrosinistra ha portato avanti fino allo sfinimento. Viene ribadito il confinamento del partito del no, di quella severità di giudizio che anela alla perfezione, ma poi, incapace di esser tale, rifiuta ogni responsabilità e decide di isolarsi opponendosi a tutto.

La riscoperta del garantismo come antidoto al giustizialismo di questi anni non deve essere vista come un cedimento ma una capacità di saper cogliere le differenze da caso a caso. È chiaro il rimando alla vicenda Errani su cui torna anche il nuovo presidente del partito democratico Matteo Orfini: “metteremo 25 mani sul fuoco sulla scelta fatta da Errani”. Dice Orfini, “abbiamo chiesto di ritirare le dimissioni perché i casi in questione sono diversi, non tutte le condanne sono uguali, né tutti i processi, è il recupero della autonomia della politica. Renzi ha portato allo sblocco di una situazione ingessata. Evitiamo gli errori degli anni ’90”. È suonata l’ora di non aver più paura del giustizialismo e delle sue critiche, questo il nocciolo del discorso
Parole in cui è chiara l’eco di un cambiamento di direzione anche rispetto alla subordinazione nei confronti del sindacato che proprio con Renzi ha toccato il culmine di uno scontro ancora tutto da decidere. Il punto, data la sensibilità del tema, è appena accennato ma c’è.

Roberto Morassut – ex assessore all’urbanistica della Giunta veltroniana, oggi deputato e vicino a Bettini fin dall’87, ai tempi del PCI – torna su quel cambiamento del partito mai avvenuto e già indicato da Veltroni, alla fine rimasto vittima proprio del “tribalismo democratico”. Ora le due anime devono necessariamente fondersi in qualcosa di diverso per superare una semplice domanda: “perché Renzi conquista e il PD no?”. Ma per farlo il partito deve restare aperto e pronto ad accogliere chi vuole riformare il Paese. Stavolta però da una posizione di forza, consapevole di poter decidere anche da solo.

Andrea Romano e Gennaro Migliore rendono omaggio all’impostazione di Bettini. Scelta civica – afferma Romano – è stata cannibalizzata dal 40%, ma, paradossalmente, questo costituisce un fatto addirittura positivo per chi vuole le riforme. E sotto il medesimo cielo possono convivere anche culture diverse. Il suo appoggio c’è, Romano è imbarcato. Paradossalmente però è Migliore a concedere di più a Bettini, definito come “fondativo nelle mie scelte personali”. Invoca il dinamismo Migliore, un’idea di movimento alla base della sinistra che vorrebbero i precari le partite IVA e in genere tutti i non tutelati. Un movimento distante anni luce da quello conosciuta finora. “La sinistra non è un principio” afferma il politico napoletano e “l’ottimismo non deve essere più un peccato”. È finito il tempo del “pessimismo autocentrato”, quando essere perdenti era simbolo di onestà e “chi vinceva era sospetto”. Migliore concede che “certo si può sbagliare, ma non mettiamoci da parte”. A gufare, aggiungerebbe Renzi.

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