Caro Renzi, la vera emergenza è la disoccupazione
di Virgilio Bartolucci | 03 Giu 2014Aggiungi questo articolo al tuo Magazine su Flipboard
Dopo la sbornia post elettorale è ora che Matteo Renzi si metta davvero al lavoro, perdere tempo sarebbe un peccato mortale. Credersi tranquillo per l’affermazione enorme alle Europee sarebbe un errore che non gli verrebbe perdonato.
L’Italia si sveglia sotto choc dopo gli ultimi dati Istat, i peggiori dal 1977, da quando, cioè, hanno avuto inizio le serie storiche. Disoccupazione oltre il 13,6% nel primo trimestre (il dato resta stabile ad aprile, il 12,6%) Tre milioni e mezzo di disoccupati un incremento dello 0,8% su base annua. Peggiora anche la disoccupazione giovanile, addirittura al 46% (anche se il dato comprende sia chi non cerca lavoro perché lavora in casa o scoraggiato sia chi sta studiando). Un dato impressionante che si sta avvicinando a grandi passi alla metà della popolazione tra i 15 e i 24 anni. A volersi fare male, poi, c’ė sempre il sud: 21,6% di disoccupazione e più del 60% per quella giovanile. Dati spaventosi che fanno tremare le gambe quando si pensa alle soluzioni al momento inesistenti.
Il problema sono le riforme e le resistenze che ad esse si oppongono, certo. Ma quali riforme? Tolte le tasse sul lavoro che evidentemente non possono essere abbattute drasticamente, a meno di non inventarsi qualche altra imposta sui cittadini, allora, resterebbero da riformare: i diritti residui di un mondo del lavoro che, pur cambiando volto e nonostante i costi altissimi già pagati, continua a restringersi; i potentati lobbistici e le sacche di privilegio. Queste indubbiamente resistono, arroccate su un semplice ricatto: “se ci tocchi, ce ne andiamo” sfruttando la globalizzazione e delocalizzando.
Che fare? Non è semplice, perché se i mercati finanziari vivono una vita a sé, fluttuando per conto e in base a leggi proprie, sempre più staccati e lontani dall’economia reale, quest’ultima paga lo sconvolgimento di un mondo globalizzato sotto l’egida del neoliberismo. La mano invisibile di Adamo Smith, però, non metterà certo le cose a posto. Soprattutto perché pochi dicono come, prima dei trattati europei, la nostra economia privata si reggesse (per quanto attiene alla grande industria – piccola, media e artigianato si sono sempre dovuti arrangiare) grazie alle decine di miliardi iniettati dallo Stato. Improvvisamente, questa strada a metà tra assistenzialismo e statalismo, maturata nell’incontro/scontro tra cultura socialista e cattolica realizzata dal triangolo Stato, sindacati, Confindustria, non è più stata percorribile. Lo Stato ha sospeso i salvataggi e le banche via via le erogazioni.
Del resto, già da un pezzo, l’economia finanziaria aveva superato quella legata alla produzione e allo scambio di beni e servizi. I più furbi, vedi la Fiat, hanno capito la fine di un’epoca, ringraziato (neanche troppo) e preso altre strade. Altri, vedi Alitalia, si trovano costretti a dire sì ad Ethiad e ad accettare (forse) i 2500 esuberi (licenziamenti) del suo piano (di quante famiglie parliamo?).
Il governo ha un compito da porsi adesso. E non si tratta del Senato, né dell’Italicum, ma della costruzione di posti di lavoro. Il lavoro. Tutti lo chiedono, tutti lo vogliono, compresi i governi che da anni lo invocano: “dobbiamo creare più lavoro”. Il problema diventa l’articolo 18, anche quando tutti sanno che ad averlo sono in pochi e saranno sempre meno. Non si assume più. La flessibilità è ovunque, il precariato è istituzionalizzato, è a vita. Eppure non sembra cambiare nulla.
L’assenza di riforme è assenza di politiche industriali ed energetiche chiare. Una mancanza che arriva da lontano ma di cui ci accorgiamo solo da un po’ e ogni volta più drammaticamente.
Si pagano i ragionamenti a breve o a brevissima scadenza. Quelli incapaci di andare oltre al primo appuntamento elettorale utile. Politiche a lungimiranza zero.
Adesso dobbiamo riparare la barca in mare aperto, ripetendoci il mantra: bisogna agganciare la ripresa. E se il ministro Poletti promette un’inversione (l’ennesima?) di tendenza per fine anno, gli industriali non lasciano spazio ai sogni: “stiamo strisciando sul fondo” afferma Il numero uno di Confindustria, Giorgio Squinzi, che si raccomanda, “non raccontiamoci storielle”. Una stoccata, un rimando implicito al concetto di nuova politica e di comunicazione di cui Renzi ha parlato il giorno prima. Un modo per dire che va bene la politica deve essere un “racconto”, però non scordiamoci della cronaca e non addolciamo la foto impietosa con qualche pennellata di colore in Photoshop.
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e’ ridicolo dire che dai 15 anni ai 25 anni grande disoccupazione. A15 o 16 o 17 anni sono scolari,a 19 o 21 o 23 sono studenti.allora anche mio nipote di 12 anni e’ disoccupato;non fatemi ridere: I VERI DISOCCUPATI SONO I 60ENNI ESODATI E NON CON MOGLIE E FIGLI E NON I 15ENNI. VERGOGNA GOVERNO DI MATTEO RENZI
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No, chi va scuola non è disoccupato. I disoccupati per l’Istat sono solo coloro che non studiano né lavorano. SI informi prima di fare gaffe di questo tipo
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