Partecipate, dalle quote rosa al conflitto di interessi
Ecco tutti i casi dubbi delle nomine fatte dal governo per la gestione delle società pubbliche
di Virgilio Bartolucci | 15 Apr 2014Aggiungi questo articolo al tuo Magazine su Flipboard
I manager rampanti cresciuti all’ombra dei plenipotenziari (Letta e Bisignani su tutti) di un berlusconismo ormai al tramonto sono stati spazzati via. Renzi non poteva venire meno alla promessa di rivoluzionare il sistema delle partecipate, da troppi anni -Scaroni, Conti e Cattaneo (per cui Berlusconi e Letta si sono battuti fino all’ultimo) erano in carica da nove anni, mentre il numero uno di Poste, Sarmi, addirittura da 12 – affidate alle mani, non sempre pulite, di protagonisti legati ad assetti politici in via d’estinzione e “risarciti” solo in minima parte.
Le nomine dovevano essere il segnale della discontinuità e, da questo punto di vista, lo sono state pur premiando per metà dei tecnici interni alle partecipate. Rispettate (almeno numericamente) le quote rosa. Nessun incarico di “vero” potere, ma quattro presidenze importantissime e diversi posti nei consigli di amministrazione. Come si giunga alle scelte resta e resterà un mistero, quello che conta adesso è l’operato dei nuovi vertici. Che le partecipate siano di importanza vitale per il nostro paese e la nostra Borsa – da sole ne condizionano un quarto abbondante – è un fatto incontrovertibile e risaputo.
Conflitto d’interessi. Meno conosciuta e ben più preoccupante è, invece, la scarsa opportunità e il conflitto d’interessi che si cela dietro a molte nomine nelle quotate. Come era accaduto al momento dell’investitura a ministro di Federica Guidi, infatti, il problema restano le commistioni tra nomine pubbliche e privato. Molto scomoda, ad esempio, è la scelta di Emma Marcegaglia alla presidenza dell’Eni, dato che le aziende di famiglia hanno, proprio su temi energetici, un rapporto strettissimo col cane a sei zampe. Ma, soprattutto, la Marcegaglia e la sua famiglia (padre e fratello) sono stati protagonisti con l’Eni e con l’Enel della vicenda giudiziaria Eni power ed Enel power, relativa a presunte tangenti versate per aggiudicarsi alcuni appalti delle controllate del Tesoro. Per quei fatti, il fratello, Antonio Marcegaglia, ha patteggiato nel 2008 una pena poi sospesa di 11 mesi per corruzione e pagato oltre 6 milioni di euro. Dalle indagini sono emersi alcuni conti cifrati intestati anche a Emma Marcegaglia e su cui erano transitati fondi neri. Suo fratello Antonio aveva ammesso candidamente che si trattava di “risorse riservate che abbiamo sempre utilizzato nell’interesse del gruppo per le sue esigenze non documentabili”. Le due società specializzate che Matteo Renzi aveva incaricato di sondare il terreno alla ricerca dei nomi da scegliere devono essersi impegnate molto per scegliere Emma Marcegaglia al vertice di Eni, visto il colossale conflitto di interessi dell’ex numero uno degli industriali. Viene da chiedersi quanto sono state pagate, anche se, con tutta probabilità, più delle aziende di “head hunter”, a pesare nella scelta sono stati i contatti politici e le pressioni di sistema.
In realtà, per la presidenza di Eni e Enel era in lizza anche l’ex ministro della Giustizia, Paola Severino. Anche per l’avvocato si potevano ravvisare motivi tali da rendere la sua nomina assolutamente incompatibile, oltre che inopportuna, dato che i due colossi di Stato Eni e Enel sono entrambi suoi clienti. Come, del resto, è anche Paolo Scaroni, assistito nel processo per la vicenda di Porto Tolle per cui è stato condannato a tre anni in primo grado per disastro ambientale. Partire con un conflitto di interessi interno non sembra una scelta molto lungimirante da parte dell’esecutivo. Anche se pare stia diventando la normalità. Se la Ducati energia, infatti, l’azienda di famiglia del ministro dello Sviluppo Federica Guidi, ha importanti rapporti d’affari con lo Stato, non stupisce che Emma Marcegaglia, a capo di un colosso che annovera rapporti sia con Enel che con Eni, possa essere diventata il presidente di quest’ultima.
Nomine politiche. Più della Marcegaglia – forte di suo e più trasversale – la presidenza più connotata politicamente è senz’altro quella della ex consigliera Rai, in quota Pdl, Maria Luisa Todini. Un nome legato a Forza Italia, di cui è stata anche parlamentare europea, tornato in ballo in maniera inaspettata – forse dopo il colloquio tra Gianni Letta e Renzi – dopo essere sfuggito ai più. Anche dopo aver ceduto a Impregilo l’azienda di famiglia, la Todini ha collezionato poltrone in numerosi Cda importanti, il che fa nascere dei dubbi su possibili ingerenze future nel nuovo ruolo di presidente di Poste. Pur non schierata in politica in prima persona anche la numero uno di Terna, Catia Bastioli, sarebbe molto vicina a Matteo Renzi e più volte avvistata alla Leopolda dove è anche intervenuta.
Altre due nomine certamente politiche si ritrovano nel Cda delle Poste, dove arriva Roberto Rao ex deputato UDC ed ex portavoce di Pierferdinando Casini e in quello di Finmeccanica in cui l’ex viceministro degli Esteri con Monti e Letta, nonché membro della Commissione Trilaterale, Marta Dassú.
Cda, la conoscenza politica prima del merito? Anche nei consigli di amministrazione, però, si ravvisano diverse nomine che, se non possono definirsi conflitti di interesse, stridono non poco con la trasparenza e la meritocrazia del tanto sbandierato nuovo corso.
Il caso Bianchi. Il più clamoroso è quello che porta nelle Cda dell’Enel l’avvocato di Matteo Renzi e del suo braccio destro Marco Carrai , Alberto Bianchi, già presidente delle fondazioni del presidente del consiglio: Big Bang e poi Open, sulla cui opera di raccolta fondi si è incentrato anche l’interesse della Guardia di Finanza. Una società di Alberto Bianchi avrebbe finanziato la pubblicità per Renzi e lo stesso Bianchi avrebbe garantito un mutuo chiesto dalle fondazioni del premier.
Inoltre, l’anno scorso, Alberto Bianchi è stato condannato dalla Corte dei Conti a pagare 4 milioni e 700 mila euro per danno erariale per una vicenda relativa alla liquidazione del carrozzone di Stato Efim spa. In qualità di commissario liquidatore – è l’accusa – Bianchi avrebbe accettato di pagare parcelle milionarie (più di 9 milioni, poi ridotti a cinque e passa) per spese legali. E questo nonostante sapesse dell’arrivo prossimo (5 giorni dopo) di una legge – 296/06, art.1, comma 492 – che impone un tetto massimo molto inferiore al milione di euro per il patrocinio legale. La Corte dei Conti ha condannato Bianchi a pagare la differenza per l’esborso alla società Ligresta subentrata alla Efim, in quanto, afferma il giudice – scrive Il Tirreno – “si attiva in prosieguo perché i difensori possano intascare effettivamente le somme così generosamente elargite”.
Ma nei Cda delle quotate i seguaci di Renzi sono parecchi: a Finmeccanica approda il manager Fabrizio Landi ex della fondazione Big Bang e renziano della prima ora, nel cda Eni c’è Diva Moriani ex amministratrice del gruppo di proprietà di un amico e finanziatore di Renzi. Poi figura l’economista della scuola di Chicago, Luigi Zingales, che prima di arruolarsi con Oscar Giannino (poi abbandonato) era stato visto alla prima Leopolda, come pure il manager tv Antonio campo dall’Orto, senza dimenticare l’ex commissario agli Uffizi di Firenze (nominato da Sandro Bondi) Elisabetta Fabbri che Renzi l’ha conosciuto lavorando sul campo. Anche Fabrizio Pagani all’Eni è vicino al Pd, sembra a Letta e Padoan
Stipendi: quelli degli ad non si toccano. Un ultimo punto da trattare riguarda la vicenda degli stipendi dei super manager. A quanto pare il governo si è impegnato a suggerire ai consigli di amministrazione delle partecipate quotate in borsa di ridurre lo stipendio dei presidenti alla soglia di 238 mila euro già decisa nel Def. Questa decisione non riguarda però gli amministratori delegati, che sono e restano i veri deus ex machina di tutte le partecipate. In ogni caso, quindi, anche se i Cda dovessero accogliere la richiesta dell’esecutivo lo stipendio dell’ex numero uno di ferrovie dello Stato, Mauro Moretti, sarà salvo. Il paese sentitamente ringrazia.
di Virgilio Bartolucci | 15 Apr 2014Aggiungi questo articolo al tuo Magazine su Flipboard
I manager rampanti cresciuti all’ombra dei plenipotenziari (Letta e Bisignani su tutti) di un berlusconismo ormai al tramonto sono stati spazzati via. Renzi non poteva venire meno alla promessa di rivoluzionare il sistema delle partecipate, da troppi anni -Scaroni, Conti e Cattaneo (per cui Berlusconi e Letta si sono battuti fino all’ultimo) erano in carica da nove anni, mentre il numero uno di Poste, Sarmi, addirittura da 12 – affidate alle mani, non sempre pulite, di protagonisti legati ad assetti politici in via d’estinzione e “risarciti” solo in minima parte.
Le nomine dovevano essere il segnale della discontinuità e, da questo punto di vista, lo sono state pur premiando per metà dei tecnici interni alle partecipate. Rispettate (almeno numericamente) le quote rosa. Nessun incarico di “vero” potere, ma quattro presidenze importantissime e diversi posti nei consigli di amministrazione. Come si giunga alle scelte resta e resterà un mistero, quello che conta adesso è l’operato dei nuovi vertici. Che le partecipate siano di importanza vitale per il nostro paese e la nostra Borsa – da sole ne condizionano un quarto abbondante – è un fatto incontrovertibile e risaputo.
Conflitto d’interessi. Meno conosciuta e ben più preoccupante è, invece, la scarsa opportunità e il conflitto d’interessi che si cela dietro a molte nomine nelle quotate. Come era accaduto al momento dell’investitura a ministro di Federica Guidi, infatti, il problema restano le commistioni tra nomine pubbliche e privato. Molto scomoda, ad esempio, è la scelta di Emma Marcegaglia alla presidenza dell’Eni, dato che le aziende di famiglia hanno, proprio su temi energetici, un rapporto strettissimo col cane a sei zampe. Ma, soprattutto, la Marcegaglia e la sua famiglia (padre e fratello) sono stati protagonisti con l’Eni e con l’Enel della vicenda giudiziaria Eni power ed Enel power, relativa a presunte tangenti versate per aggiudicarsi alcuni appalti delle controllate del Tesoro. Per quei fatti, il fratello, Antonio Marcegaglia, ha patteggiato nel 2008 una pena poi sospesa di 11 mesi per corruzione e pagato oltre 6 milioni di euro. Dalle indagini sono emersi alcuni conti cifrati intestati anche a Emma Marcegaglia e su cui erano transitati fondi neri. Suo fratello Antonio aveva ammesso candidamente che si trattava di “risorse riservate che abbiamo sempre utilizzato nell’interesse del gruppo per le sue esigenze non documentabili”. Le due società specializzate che Matteo Renzi aveva incaricato di sondare il terreno alla ricerca dei nomi da scegliere devono essersi impegnate molto per scegliere Emma Marcegaglia al vertice di Eni, visto il colossale conflitto di interessi dell’ex numero uno degli industriali. Viene da chiedersi quanto sono state pagate, anche se, con tutta probabilità, più delle aziende di “head hunter”, a pesare nella scelta sono stati i contatti politici e le pressioni di sistema.
In realtà, per la presidenza di Eni e Enel era in lizza anche l’ex ministro della Giustizia, Paola Severino. Anche per l’avvocato si potevano ravvisare motivi tali da rendere la sua nomina assolutamente incompatibile, oltre che inopportuna, dato che i due colossi di Stato Eni e Enel sono entrambi suoi clienti. Come, del resto, è anche Paolo Scaroni, assistito nel processo per la vicenda di Porto Tolle per cui è stato condannato a tre anni in primo grado per disastro ambientale. Partire con un conflitto di interessi interno non sembra una scelta molto lungimirante da parte dell’esecutivo. Anche se pare stia diventando la normalità. Se la Ducati energia, infatti, l’azienda di famiglia del ministro dello Sviluppo Federica Guidi, ha importanti rapporti d’affari con lo Stato, non stupisce che Emma Marcegaglia, a capo di un colosso che annovera rapporti sia con Enel che con Eni, possa essere diventata il presidente di quest’ultima.
Nomine politiche. Più della Marcegaglia – forte di suo e più trasversale – la presidenza più connotata politicamente è senz’altro quella della ex consigliera Rai, in quota Pdl, Maria Luisa Todini. Un nome legato a Forza Italia, di cui è stata anche parlamentare europea, tornato in ballo in maniera inaspettata – forse dopo il colloquio tra Gianni Letta e Renzi – dopo essere sfuggito ai più. Anche dopo aver ceduto a Impregilo l’azienda di famiglia, la Todini ha collezionato poltrone in numerosi Cda importanti, il che fa nascere dei dubbi su possibili ingerenze future nel nuovo ruolo di presidente di Poste. Pur non schierata in politica in prima persona anche la numero uno di Terna, Catia Bastioli, sarebbe molto vicina a Matteo Renzi e più volte avvistata alla Leopolda dove è anche intervenuta.
Altre due nomine certamente politiche si ritrovano nel Cda delle Poste, dove arriva Roberto Rao ex deputato UDC ed ex portavoce di Pierferdinando Casini e in quello di Finmeccanica in cui l’ex viceministro degli Esteri con Monti e Letta, nonché membro della Commissione Trilaterale, Marta Dassú.
Cda, la conoscenza politica prima del merito? Anche nei consigli di amministrazione, però, si ravvisano diverse nomine che, se non possono definirsi conflitti di interesse, stridono non poco con la trasparenza e la meritocrazia del tanto sbandierato nuovo corso.
Il caso Bianchi. Il più clamoroso è quello che porta nelle Cda dell’Enel l’avvocato di Matteo Renzi e del suo braccio destro Marco Carrai , Alberto Bianchi, già presidente delle fondazioni del presidente del consiglio: Big Bang e poi Open, sulla cui opera di raccolta fondi si è incentrato anche l’interesse della Guardia di Finanza. Una società di Alberto Bianchi avrebbe finanziato la pubblicità per Renzi e lo stesso Bianchi avrebbe garantito un mutuo chiesto dalle fondazioni del premier.
Inoltre, l’anno scorso, Alberto Bianchi è stato condannato dalla Corte dei Conti a pagare 4 milioni e 700 mila euro per danno erariale per una vicenda relativa alla liquidazione del carrozzone di Stato Efim spa. In qualità di commissario liquidatore – è l’accusa – Bianchi avrebbe accettato di pagare parcelle milionarie (più di 9 milioni, poi ridotti a cinque e passa) per spese legali. E questo nonostante sapesse dell’arrivo prossimo (5 giorni dopo) di una legge – 296/06, art.1, comma 492 – che impone un tetto massimo molto inferiore al milione di euro per il patrocinio legale. La Corte dei Conti ha condannato Bianchi a pagare la differenza per l’esborso alla società Ligresta subentrata alla Efim, in quanto, afferma il giudice – scrive Il Tirreno – “si attiva in prosieguo perché i difensori possano intascare effettivamente le somme così generosamente elargite”.
Ma nei Cda delle quotate i seguaci di Renzi sono parecchi: a Finmeccanica approda il manager Fabrizio Landi ex della fondazione Big Bang e renziano della prima ora, nel cda Eni c’è Diva Moriani ex amministratrice del gruppo di proprietà di un amico e finanziatore di Renzi. Poi figura l’economista della scuola di Chicago, Luigi Zingales, che prima di arruolarsi con Oscar Giannino (poi abbandonato) era stato visto alla prima Leopolda, come pure il manager tv Antonio campo dall’Orto, senza dimenticare l’ex commissario agli Uffizi di Firenze (nominato da Sandro Bondi) Elisabetta Fabbri che Renzi l’ha conosciuto lavorando sul campo. Anche Fabrizio Pagani all’Eni è vicino al Pd, sembra a Letta e Padoan
Stipendi: quelli degli ad non si toccano. Un ultimo punto da trattare riguarda la vicenda degli stipendi dei super manager. A quanto pare il governo si è impegnato a suggerire ai consigli di amministrazione delle partecipate quotate in borsa di ridurre lo stipendio dei presidenti alla soglia di 238 mila euro già decisa nel Def. Questa decisione non riguarda però gli amministratori delegati, che sono e restano i veri deus ex machina di tutte le partecipate. In ogni caso, quindi, anche se i Cda dovessero accogliere la richiesta dell’esecutivo lo stipendio dell’ex numero uno di ferrovie dello Stato, Mauro Moretti, sarà salvo. Il paese sentitamente ringrazia.