Riforma del Senato, ecco chi rema contro e perché
L’ANALISI – Riformare il Senato è necessario per un solo motivo: la paralisi decisionale e l’esasperante lentezza che produce nel nostro Parlamento, organo titolare del potere legislativo. Riformare il Senato – che non verrà abolito – significa, innanzitutto, mettere fine al bicameralismo perfetto. Avere due Camere con identiche funzioni che costrintgono a un rimpallo infinito appena una approva una modifica ad un provvedimento licenziato dall’altra, è assolutamente inutile, oltre che dannoso. Di questo effetto perverso si discute da anni e non nasce certo con l’idea di riforma dell’attuale esecutivo. Sulla quale però opererà come discriminante: se non si mette fine alle due camere l’una doppione dell’altra, allora, la riforma sarà solo una farsa, oltre che un fallimento.
BICAMERALISMO PERFETTO?
E questo con buona pace di chi – vedi il M5S – ancora si ostina a dire che il problema non è il bicameralismo perfetto. Perché sarà anche vero come dicono anche Fico e Di Maio: “il Lodo Alfano è stato approvato in 20 giorni”, ma, per loro stessa implicita ammissione, si è trattato dell’eccezione. Il problema è far si che diventi la regola. Quindi bisogna ridurre al minimo l’arbitrarietà dei partiti, facendo in modo che sia solo una camera ad avere l’ultima parola. Punto.
LE ORIGINI
In principio, dopo il ventennio fascista, l’idea delle due camere aveva la sua logica: tutelare, con un doppio controllo, da possibili e pericolosi colpi di testa l’organo sovrano della nostra Repubblica, permettere una discussione seria e minuziosa di ogni proposta e garantire la possibilità di riparare agli errori di una legge grazie alla doppia lettura. Certo, sarebbero ancora principi corretti, se non fosse che i costituenti non potevano prevedere la futura deriva istituzionale.
UN PAESE PARALIZZATO
Oggi, a fronte di una crisi economica che corre producendo effetti drammaticamente veloci, le ragioni profonde dei padri della Costituzione si perdono nell’incomprensibile danno che si è prodotto. Tutto il tempo perso – su cui pesano e si innestano le pressioni di lobby potentissime -, le piccole sfumature che si materializzano in diabolici commi fatti apposta per essere modificati rimpallando da un palazzo all’altro e allungando i lavori, sono il risultato di un volontario ingolfamento della macchina. Una sterilizzazione spesso chirurgica dell’azione legislativa, che passa spesso per la famigerata “navetta”, ovvero, il passaggio di un ddl da una camera all’altra fino alla approvazione definitiva. Che, quasi sempre, giunge in esasperante ritardo. Tanto da essere diventato nel corso degli anni emblema di un Paese paralizzato.
GLI SCOGLI
Ora che il ddl è stato approvato dal Consiglio dei ministri, va considerato che per realizzare la riforma di palazzo Madama ci vuole una legge costituzionale. Il che presenta non poche difficoltà: per i tempi, visto l’iter assai più lungo e per gli uomini, dato che – come ha ricordato in modo irrituale il presidente del Senato Grasso – non è detto si trovino i numeri. Specie se a dover decidere della propria fine sono gli stessi senatori. Inoltre, bisogna considerare il referendum del 2006, in cui il popolo aveva scelto di non modificare il bicameralismo perfetto.
Nonostante queste oggettive difficoltà, però, non si capisce per quale ragione la riforma – che, sia chiaro, per come è formulata lascia molti dubbi e punti interrogativi sul terreno – venga così osteggiata. I motivi come vedremo sono molteplici, ma non possono riguardare le semplicissime considerazioni espresse a inizio articolo, che restano macroscopiche e difficilmente contestabili. E allora?
IL RISPARMIO: PIÙ TEMPO CHE DENARO
La riforma ideata da Renzi non è perfezione assoluta, ma prova comunque a superare l’impasse parlamentare che produce (poche) leggi diversissime dall’idea originale – anche per le diverse maggioranze che si possono creare nelle due camere- e spinge a governare per decreto e a legiferare a colpi di fiducia. Il risparmio non è tanto economico – il conto di un miliardo di euro è clamorosamente sbagliato, se si eliminano solo gli stipendi dei senatori sono ‘appena’ un centinaio di milioni -, quanto di tempo: con qualche decreto in meno e, si spera, qualche legge in più.
GLI OPPOSITORI
I tanti nemici della riforma su cui Renzi ha detto di giocarsi la carriera politica (in tal modo scatenando l’irresistibile voglia di farlo fuori, presente fuori e dentro al suo partito), possono dividersi – molto sinteticamente – in tre grandi gruppi.
IL PRIMO
È costituito da coloro che vedono in Renzi il continuatore e il beneficiario del disegno Berlusconiano. Probabilmente, la critica più che sulla riforma di palazzo Madama sta proprio nell’accordo stretto col Cavaliere, incipit dell’esecutivo del rottamatore. In pratica, chi solidarizza con l’appello di Gustavo Zagrebelsky e dei “difensori a oltranza” della Costituzione vede dietro alla riforma del Senato una crescita esponenziale dell’autoritarismo. Ma anche del decisionismo. Il che, in un Paese assetato di decisioni, dove però non si decide mai niente, francamente fa ridere.
Tra i firmatari dell’appello ci sono anche Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Ai leader massimi del 5 Stelle – a cui in realtà sarebbe piaciuto intestarsi la decapitazione di buona parte dei parlamentari – non pare vero poter andare a pescare nella riserva naturale di quella sinistra anti berlusconiana che, un tempo, sia pure con tante differenze, appariva comunque unita.
Sostanzialmente, si critica la compresenza dell’Italicum e il neo presidenzialismo che sottende per difendere “la camera alta” del nostro ordinamento, come simbolo di democrazia. Questioni che tra loro c’entrano molto poco. D’altro canto, la critica a chi ora appoggia il disegno di Renzi (vedi il gruppo De Benedetti), quando fino a ieri scendeva in piazza contro Berlusconi con la Costituzione in pugno, qualche ragione obiettivamente c’è l’ha. La domanda principale è la seguente: come può – soprattutto dopo la sentenza della Corte Costituzionale – un Parlamento non legittimato pensare di riformare la Costituzione? E qui si colpisce il tallone d’Achille del governo Renzi, mai votato nonostante le false promesse del rottamatore.
Nell’appello di Zagrebelsky si coglie una presa di posizione tanto sulla velocità decisionale, quanto sull’egocentrismo autoritario del premier. Quella sua giovanilistica nonchalance nel comunicare le cose, che inevitabilmente si scontra con vincoli da sciogliere con pazienza più che con un colpo di machete.
IL SECONDO
È tipicamente politico. La critica, esplicitata dal presidente Piero Grasso, si basa sulla sostituzione di una camera elettiva con un organismo di nominati, che cancellerebbe l’espressione popolare producendo un deficit di democrazia. È una posizione presente tanto nel centrosinistra ( nel Pd), quanto nel centrodestra (Fi). Ovvero in coloro che, non potendo andare contro ai cavalli di battaglia del berlusconismo prima e del renzismo poi, difendono l’indifendibile: il Senato, perché ritengono non sia possibile non votare i rappresentanti di una istituzione così importante. Un’arzigogolata presa di posizione che dimentica come venivano chiamati fino a ieri i parlamentari: nominati. Intendendo con disgusto la scelta fatta dai leader e non certo dal popolo. Altra critica – decisamente più sensata – è sul tipo di funzioni e sulla reale utilità che potrà avere la “nuova” camera. Ma anche questa appare debole a fronte di un taglio dei parlamentari e di uno sveltimento del processo decisionale.
E allora viene il sospetto che la critica parta da un’altra verità semplice semplice: togliendo la possibilità di fare eleggere in Senato i politici, si eliminano un terzo delle poltrone (stipendi e benefit) disponibili in Parlamento. Gli spazi di manovra, contrattazione e clientelismo si ridurranno e ciò genererà una corsa senza esclusione di colpi, in barba a qualsiasi disciplina di partito.
IL TERZO
Il più pericoloso: i funzionari pubblici del Senato. Spesso e a ragione ci si chiede quali saranno i compiti del nuovo senato. Che senso avrà. La risposta migliore, forse, sta proprio nella sua dirigenza che non può essere eliminata o riassorbita, ma a cui va garantita una casa.
Per rendersi conto della potenza dell’istituzione di cui stiamo parlando, basti pensare che alcuni degli impiegati (non direttori, ma semplici stenografi d’aula, i famosi “pianisti”) finiscono la carriera con uno stipendio superiore a quello del Presidente della Repubblica. I dirigenti più alti godono di un potere spesso sconosciuto anche ai più addentrati addetti ai lavori. La riforma non li cancella è ovvio, eppure il loro potere viene molto ridimensionato. Ma sottovalutare la loro forza è veramente miope. Basti pensare a come siano fra i primi e tra i pochi a comprendere al volo il vero punto di cui si discute, a come orientino gli stessi senatori, magari spiegando loro le norme più insidiose, a quanto contino nella stessa stesura delle leggi. Quanti sono i parlamentari che gli devono più di qualcosa in termini di consigli e di escamotage da adottare? Forse – mentre si discute – la saldatura tra alta dirigenza e personale politico di palazzo Madama è cosa già fatta. Ed è proprio su questa che Renzi rischia di rompersi il collo.
Twitter@virgiliobart
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