I conti in tasca a Renzi. Che non tornano
L’ANALISI – Piano piano la retorica rivestita dall’insopportabile lessico calcistico – il pallone ormai unica metafora della politica – finirà e scopriremo che il tempo dei sorrisi è cessato.Sorrisi e magliette firmate dai campioni del football non se ne vedranno più. Le intese con la Merkel svaniranno appena scopriremo che, per i 10 miliardi da mettere nelle tasche degli italiani, Renzi non potrà utilizzare quello 0,4% di disavanzo nel rapporto deficit/Pil che ci separa – siamo al 2,6% – dal limite insuperabile del 3%. O meglio, non potrà utilizzarlo per il taglio dell’Irpef, mentre per ridurre i debiti in conto capitale, forse si. Se – come spiegato dal premier – ogni 0,1% di disavanzo equivale ad un miliardo e mezzo di euro e se Renzi pensava di usarne uno 0,2, il problema è che all’appello ci mancano 3 miliardi. Insomma, i conti non tornano.
A questo punto tutto o quasi dipende dalla spending review. Un traguardo fissato in quasi 60 miliardi in tre anni, un traguardo ambizioso. Forse troppo, visto che una grossa parte dell’intera cifra sarebbe già stata destinata (ad esempio per la legge di Stabilità) e quindi, di fatto, inutilizzabile. Per il 2014 Renzi aveva annunciato che dalla revisione della spesa si potevano trovare 7 miliardi. Una cifra che era sembrata troppo alta a fronte di stime attestate sui tre. Ma il commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, ha concesso che, con un grande sforzo, negli otto mesi che mancano alla fine dell’anno in corso, è possibile arrivare al massimo a 5 miliardi.
Almeno sulla carta, in effetti, nei cinque capitoli di spesa individuati da Cottarelli il conto per l’anno in corso tornava: efficientamento PA 2,2 mld; riorganizzazioni 200 mln; costi politica 400 mln; trasferimenti a imprese e famiglie 2 mld; spese settoriali 2,2 mld. Totale: sette miliardi tondi.
Adesso, ad anno iniziato da un pezzo, invece, siamo appena a cinque. Due in meno. E sulla carta – per ora non c’è nulla di sicuro – si parla di sforbiciate dolorose anche a pensioni e welfare (tra cui, ad esempio, alle spese per l’indennità d’accompagno per i disabili).
Su tutti, peró, il taglio più gravoso resta quello degli 85 mila lavoratori pubblici in esubero. Divisi tra gli 8 mila da accompagnare alla pensione, i sedicimila in “mobilità forzata” da un posto all’altro – chi non si muove avrà per due anni lo stipendio decurtato fino al 50% prima di restare definitivamente a casa – e il resto da raggiungere tramite il blocco totale del turnover. Ovvero, nessuna assunzione per i prossimi tre anni.
Anche mettendo da parte i numeri, di cui va accertata l’entità reale, se il governo pensa di risolvere il caso a colpi di slide, battute e buonumore dispensato a piene mani ai giornalisti più simpatici, è fuori strada. I sindacati, che non hanno alcuna intenzione di farsi rottamare, daranno fondo a una delle più grosse battaglie degli ultimi anni. La Cgil ha già detto di non vedere nessuna #svoltabuona. E tutte le organizzazioni si schiereranno a difesa del pubblico impiego (come pure di pensioni e welfare) e combatteranno perché i provvedimenti di Renzi non acuiscano ulteriormente la grave crisi di rappresentatività di cui soffrono nel mondo del lavoro.
In realtà, nonostante gli Stati Uniti ci chiedono di tagliare 500 mila statali, con i nostri tre milioni e trecentomila lavoratori pubblici (statali propriamente detti e lavoratori del pubblico non statale: sanità, regioni, enti e università), siamo in linea con gli altri paesi Ue e, ad esempio, sotto ai livelli della Francia. Ora, che un governo mai legittimato dal voto popolare tagli 85 mila statali senza bagni di sangue è difficile crederlo. Ma, soprattutto, se con la revisione della spesa arriviamo appena a 5 miliardi gli altri 5 per mettere i “benedetti” 80 euro in più nelle tasche degli italiani, da dove arriveranno?
Il favore mostrato dalla Merkel per una spinta ai consumi italiani che si ripercuoterà favorevolmente sulle esportazioni tedesche è comprensibile. I 10 miliardi piacciono alla cancelliera, ma l’allentamento del rigore sul ripianamento del debito no. Eppure, senza l’ok ad usare parte del disavanzo sul vincolo del 3%, purtroppo, è assolutamente probabile che il primo obiettivo di Renzi diventi una promessa spot. E una faccenda eminentemente politica, visto che i primi soldi in busta paga arriveranno solo a partire dal 27 maggio, mentre per le elezioni europee si vota il 25.
Twitter@virgiliobart
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