I Job Act di Matteo Renzi, tra palco e realtà
L’ANALISI – Stiamo affondando e non c’è tempo da perdere. Il dramma del lavoro in Italia continua alla faccia di chi intravede la ripresa. Il tasso di disoccupazione a gennaio è balzato al 12,9% – la media dei Paesi Ue è al 12% – in rialzo di 0,2 punti su base mensile e dell’ 1,1 su base annua. È il dato peggiore dal 1977.
Anche il peggior dato dall’inizio della crisi: 3,3 milioni di disoccupati nel 2013, con un + 13,4% rispetto all’anno precedente, che – rileva l’Istat – «interessa entrambe le componenti di genere (uomini e donne) e tutte le ripartizioni». Si tratta del tasso più alto non solo dal gennaio 2004 (inizio delle rilevazioni statistiche mensili), ma addirittura delle rilevazioni trimestrali partite la prima volta nel lontano 1977. Siamo messi male, anche peggio a guardare il tasso di disoccupazione giovanile tra i 15 e i 24 anni, salito al 42,4%, con un aumento di 0,7 punti percentuali rispetto al mese precedente e addirittura del 4% in un anno.
Un disastro che nel 2013, ha portato a 478 mila disoccupati in più rispetto al 2012: poco meno di mezzo milione di posti di lavoro persi in un solo anno. Inoltre, contando che dal 2008 (data di inizio della crisi) al 2013, si contano quasi un milione (984 mila) di nuovi disoccupati in più, ciò significa che solo nell’ultimo anno, dal 2012 al 2013, in Italia sono andati persi 500 mila posti di lavoro. Nello stesso periodo, quindi, il tasso di occupazione italiano è passato dal 60,6% del 2012 al 58,1% del 2013. Un calo del 2,5%.
Poi ci sono gli inattivi. Il tasso di inattività medio nel 2013 sale al 36,5%, con un incremento di 0,2 punti percentuali. Nell’anno appena concluso la popolazione inattiva tra i 15 e i 64 è tornata a crescere (+0,3%)dopo la tregua del 2012, spinta dall’aumento degli scoraggiati (187 mila) e di chi in attesa di un miglioramento preferisce studiare (100 mila). Maglia nera per il Mezzogiorno, i cui numeri assomigliano sempre più a quelli della Spagna, con un tasso di disoccupazione del 19,7% e un numero di occupati in calo del 4,6%, vale a dire, 282.000 nuovi disoccupati.
C’è ancora qualcuno tra i politici e gli alti papaveri dell’èlite economico-finanziaria che ha il coraggio di parlare di una crisi oramai dietro alle spalle? Con che occhiali intravedono la ripresa magari considerando i dati sul Pil dimezzato (era atteso lo’1,1% invece sarà lo 0,6%) il peggiore dell’area euro? Bisognerebbe fare qualcosa subito e possibilmente cercando di incidere. Nel frattempo, però, quello che i “maghi e gli strateghi” seduti nel nostro Parlamento hanno pensato per tirarci fuori è – se si esclude il Job Act, di cui diremo – il nulla. All’orizzonte c’è il deserto.
Il neo presidente del Consiglio, Matteo Renzi, per ora twitta: «La disoccupazione è al 12,9%. Cifra allucinante, la più alta da 35 anni. Ecco perché il primo provvedimento sarà il JobsAct #lavoltabuona». Ora, la bozza di Job Act inviata da Renzi in una newsletter dell’8 gennaio scorso presenta una serie di lacune e omissioni non da poco.
Le riforme che dovrebbero creare occupazione e migliorare condizioni e mercato del lavoro – contenute nei punti B e C – appaiono poco definite e molto ipotetiche. Per la creazione di nuovi posti di lavoro il JobsAct individua sette settori – 1) Cultura, turismo, agricoltura e cibo; 2) Made in Italy (dalla moda al design, passando per l’artigianato e per i makers); 3) ICT ; 4) Green Economy; 5) Nuovo Welfare; 6) Edilizia; 7) Manifattura – per ognuno dei quali conta di creare un singolo piano industriale contenente le azioni operative e concrete atte a creare lavoro. Adesso considerate che siamo solo alle intenzioni e tutto ancora da fare. Immaginate con che difficoltà e resistenze e poi fatevi due calcoli sui tempi di approvazione.
Per quanto attiene alla semplificazione, invece, è previsto un codice del lavoro che racchiuda e semplifichi tutte le regole attualmente esistenti e sia ben comprensibile anche all’estero. Tempo di realizzazione stimato: otto mesi.
Altra idea è la riduzione delle oltre 40 forme contrattuali, per arrivare ad un contratto di inserimento a tempo indeterminato e a tutele crescenti. Quindi, ridiscutendo voce per voce tutta la disastrosa riforma Fornero che invece di incentivarle ha prodotto licenziamenti e blocco delle assunzioni.
Come massima aspirazione c’è l’assegno universale per chi perde il posto di lavoro, anche per chi oggi non ne avrebbe diritto, ma con l’obbligo di seguire un corso di formazione professionale e di non rifiutare più di una nuova proposta di lavoro. Peccato che ci siano già l’Aspi e la mini Aspi della Fornero pensati per lo stesso motivo. Renzi, allora, dovrebbe abbassare la soglia dei requisiti necessari per godere di questa forma di tutele. Anche perché in caso contrario dovrebbe rimettere mano a tutto il sistema degli ammortizzatori sociali.
Nel piano del rottamatore, inoltre, le agenzie di formazione saranno obbligate a rendicontare online ed ex post ogni spesa per la formazione professionale realizzata con denaro pubblico – spesso oggetto di inchieste – e sottoposte a criteri di valutazione meritocratica, con pena della cancellazione dagli elenchi per chi non fa risultati. Sempre che sussista il presupposto dell’erogazione dell’effettiva domanda delle imprese.
Prevista anche un’Agenzia Unica Federale che coordini e indirizzi i centri per l’impiego, la formazione e l’erogazione degli ammortizzatori sociali. Anche qui non si può credere di centralizzare tutto in due giorni. E poi la legge sulla rappresentatività sindacale e presenza dei rappresentanti eletti direttamente dai lavoratori nei CDA delle grandi aziende. Un provvedimento che capace di innescare un braccio di ferro con le organizzazioni dei lavoratori.
Ma tra le intenzioni del Job Act e la sua realizzazione c’è di mezzo la politica. Ora, è facile prevedere che partirà la solita melina tra chi vuole per prima cosa la legge elettorale e chi, aspirando a durare, chiede di anteporre il bene del Paese al singolo desiderio di affermazione personale.
Morale della favola: a passare in secondo piano sarà anche stavolta la soluzione dei problemi – il come fare, la “ciccia”, quello che conta davvero e nessuno dice mai chiaramente preferendo riempirsi la bocca con vuote invocazioni. Tipo il classico, “ci vuole più il lavoro!” –, che verrà coperta dalla nebbia delle polemiche mentre i dati si faranno sempre più drammatici. E se di primo acchitto le previsioni sembrano negative, la realtà è anche peggio.
Il circolo è chiaramente vizioso: disoccupazione – ammortizzatori sociali- maggiori costi per lo Stato – più debito – nuove tasse. Un cane che si morde la coda. Servirà il Job Act? Magari, tutti lo sperano, ma la realtà è un’altra ed è sotto gli occhi di tutti. In un ciclo economico negativo il privato non investe, non spende e non rischia, anche perché spesso è in seria difficoltà. L’unico che può intervenire con una manovra per questo detta “anticiclica” è lo Stato. Lo Stato, cioè, è l’unico che può spendere quando tutti i criteri di razionalità economica consigliano di fare il contrario. Per questo la sua azione è anticiclica, perché si muove in senso contrario, fa l’opposto di quanto farebbe un privato. In altre parole: spende quando nessun’ altro lo farebbe. Ma per farlo deve produrre debito e i vincoli europei ce lo vietano. Quindi lo spazio di manovra è stretto, si può solo cercare di migliorare le condizioni utili ad attrarre investimenti e incentivare le assunzioni. Una strada impervia senza poter mettere sul piatto della bilancia qualcosa di allettante da offrire. In poche parole, a nessun imprenditore si può chiedere di essere San Francesco. Solo lo Stato è in grado di investire senza un immediato ritorno. Ma se questo ha le mani legate, come nel nostro caso, scatta il paradosso. Infatti, a quel punto, lo Stato spende sempre più per disoccupazione e cassa integrazione, deve tassare ancora i cittadini già tartassati ed entra in un vortice senza uscita che non consente di abbattere i problemi reali alla radice.
Alla fine – come abbiamo visto, con grande stupore, dopo la cura dei “professoroni” e di altri ferventi “rigoristi” – il debito aumenta lo stesso, senza però gettare le basi su cui costruire una vera ripresa che possa col tempo recuperare il terreno perduto.
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