Il teatrino della politica e il Paese che muore - Diritto di critica
Mentre aspettiamo con ansia che si decida chi vincerà le primarie del centrosinistra e quale sarà il futuro del centrodestra dopo la scissione di Alfano e dei governativi, intanto, il paese muore di crisi, di tasse, di malaffare, di spartizioni e di svendite della res pubblica per conto terzi. Muore di asfissia sotto alla pioggia battente, con l’acqua alla gola. In attesa del solito scaricabarile di responsabilità che anche nella tragedia di queste ore in Sardegna non tarda a comparire. Muore per mancanza di idee e riforme che non s’hanno da fare, uccisa da una classe politica sempre attenta alle esigenze del “capitalismo di relazione” – quello che: anche se non hai soldi l’affare lo fai tu, sta’ tranquillo, perché sei amico nostro, quello dei padroni dell’economia nazionale, dei padrini che scelgono, dirottano, raccomandano chi un domani gli renderà un favore – e sempre meno a quelle della collettività.
Nessuno sa cosa ci attende. Nessuno sa con precisione come vadano presi tutti quei dati che mostrano sempre più vicina la ripresa della nostra economia, nonostante una disoccupazione sopra il dodici per cento. Nessuno sa perché ci troviamo invischiati in trattati capestro, né capisce perché abbiamo accettato i vincoli imposti da un’Europa sempre più lontana e filogermanica e poi li abbiamo immessi di corsa nella nostra Costituzione. Nessuno capisce perché sentiamo ripetere di continuo e con tono lamentoso l’inutile invocazione agli dei: “bisogna creare posti di lavoro”, oppure l’irritante “dobbiamo far ripartire la ripresa”. Frasi vuote di chi sa benissimo come il vincolo di bilancio impedisca l’unico rimedio possibile alla crisi peggiore degli ultimi cento anni: il ricorso a manovre anticicliche, ovvero, il ricorso alla spesa.
A fronte di tutti questi “misteri” insondabili, a cui non è possibile avere accesso, e con più di un milione di posti di lavoro persi negli ultimi anni, la domanda dei non addetti ai lavori infondo è molto semplice: che cosa faranno domani tutti questi disoccupati? Come camperanno?
Ed ecco che – al netto delle beghe di partito, dei pettegolezzi gossippari tra falchi, colombe e pitonesse, leader Maximi, capetti, mezzi capi e capocorrenti con seguito artificiale – questo semplicissimo interrogativo si fa strada naturalmente tra spettatori attoniti, impauriti da quanto vedono delinearsi dietro la cortina fumogena alzata da un potere pronto come sempre a difendere solo sé stesso. Il lavoro che non c’è, i cambiamenti che miracolosamente dovrebbero essere apportati da quanti rimasti ancorati alle sedie sono ancora lì, nonostante i danni prodotti e la burrasca scatenatasi in un novembre tragico, spaventano e interessano molto più delle corse di uomini della provvidenza verso investiture salvifiche.
Eppure ai nostri occhi si presenta una realtà altra da quello su cui dovremmo concentrarci. Una visione imposta che lentamente si insinua arrivando quasi a convincerci che in cima alle preoccupazioni degli italiani ci sia la battaglia di Renzi per arrivare a segretario del Pd e poi a correre per la presidenza del Consiglio, o quella di Alfano per non morire da “parricida” dopo aver tradito l’uomo che lo ha creato ed ora lo vorrebbe come un nuovo Fini. L’epilogo del monarca ferito che vuole il sacrificio del cortigiano riottoso, da immolare sull’altare di una vendetta cieca contro “l’immane ingiustizia” di vedersi escluso, dopo una condanna per frode fiscale, dal gioco che da vent’anni conduce. E poi ci sono le manovre per restare al comando (e forse svendere i beni pubblici?) di un astuto Letta desideroso di dimostrare a tutti di avercele davvero le famose “palle d’acciaio”. Almeno quanto quelle di un Napolitano sempre più insofferente verso i critici del suo operato, i quali, sarà un caso, ma vanno a morire – autoeliminandosi – uno dopo l’altro, prima Di Pietro e Ingroia, ora potrebbe toccare a Vendola, mentre per Grillo all’orizzonte si prevedono grosse novità.
Il quadro c’è, ma la fiction politik di questi tempi potrà essere buona a distrarre gli italiani proprio come una soap opera di successo? A riempire – apparentemente – i loro discorsi, ad addossare a qualcuno le responsabilità e a catalizzare su qualcun altro le speranze residue in un cambiamento di rotta sempre più improbabile? Possibile ciò accada? O forse stavolta lo si è capito benissimo che il manovrare senza sosta è solo l’ennesimo “facimm’ammuina” di Franceschiello, un modo ben sperimentato per far credere ad un cambiamento che non c’è, innanzitutto perchè la classe dirigente – che dovrebbe realizzarlo – non lo vuole.
Cambiare tutto perché nulla cambi e tutto prosegue nella direzione voluta.
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