Islamisti e galeotti, ecco perché la nuova Libia deve farci paura
Altro che Iraq. Il caos ce lo abbiamo alle porta di casa. Eppure la notizia del rapimento del premier libico Ali Zeidan – rilasciato dopo varie ore – è passata in secondo piano, di fronte alle sfuriate di Beppe Grillo e le urla in Parlamento: “Ladri!”. Eppure, per l’Italia i prossimi problemi potrebbero venire proprio dal sud del Mediterraneo dove la pace e la stabilità sono un ricordo lontano.
La Libia instabile. La Libia è un paese ricco e i suoi abitanti sognano un futuro prospero e possibilmente democratico. Tuttavia, il crollo di Gheddafi – che oggi qualcuno esalta dimenticandosi che fu un barbaro terrorista e un dittatore spietato – ha destabilizzato il Paese in maniera forse irreversibile. Il governo riconosciuto, figlio della rivolta anti-rais, ancora oggi non controlla molte zone e città del Paese. Se la resistenza vicina a Gheddafi sembra essere stata messa fuori combattimento, rimangono zone sotto il controllo di organizzazioni criminali – come nel caso della città di Misura da dove sembra sia partito il barcone recentemente affondato davanti le coste di Lampedusa – o sotto il controllo di milizie islamiste. Insomma, per la Libia la stabilizzazione appare ancora molto lontana.
Islamisti e galeotti. La cattura del premier Ali Zeidan potrebbe essere stata la conseguente risposta alla cattura da parte di reparti speciali americani in territorio libico di Al Libi, una delle principali teste di Al Qaeda e mente degli attentati alle ambasciate statunitensi in Africa nel 1998. Il rilascio di Zeidan dopo alcune ore potrebbe essere stato frutto del timore di un nuovo (e più massiccio) intervento americano da Sigonella per liberare il premier in carica e di fatto rischiare di ritrovarsi una forza multinazionale a sostegno del governo legittimo, come in Afghanistan.
A rischio gli interessi italiani. Rimane però il problema della crescente instabilità che rischia di coinvolgerci direttamente. La scelta del popolo libico di rifiutare una strada islamista durante la transizione, ha spinto i gruppi fondamentalisti a riorganizzarsi contro il governo, soprattutto nelle zone orientali del Paese dove hanno maggiore presa sulle tribù locali. Inoltre, la debolezza del governo di Tripoli – che non riesce nemmeno a controllare tutti i quartieri della capitale – ha lasciato spazio alle organizzazioni criminali che controllano di fatto (e con l’uso delle armi) impianti petroliferi e gasdotti. Per l’Italia questa situazione rappresenta un vero e proprio pericolo per gli interessi nazionali. In primo luogo difficilmente si potrà ottenere la collaborazione del governo libico nel fermare il fenomeno dei barconi nel Mediterraneo, così da bloccare nuove stragi come quella drammatica dell’Isola dei Conigli. Ma soprattutto ora il pericolo maggiore per la nostra sicurezza e per i nostri interessi nazionali riguarda l’approvvigionamento energetico. Infatti, l’Eni ha visto ridursi drasticamente l’afflusso di greggio libico da 270 mila barili giornalieri (pari al 23% delle nostre importazioni) prima della caduta di Gheddafi, a soli 60 mila. Una perdita non indifferente per un’Italia sempre sull’orlo della crisi energetica. Oggi l’Eni è costretta a rifornirsi altrove pagando più caro il greggio acquisito sui nuovi mercati. Per quanto riguarda il gas al momento non dovrebbero esserci problemi di approvvigionamento dalla Libia. Eppure una nuova crisi potrebbe mettere in pericolo addirittura il riscaldamento delle nostre abitazioni, proprio con l’avvicinarsi della stagione fredda.
Una minaccia per la nostra sicurezza. Poi c’è anche un pericolo legato alla sicurezza nazionale. Gheddafi ha rappresentato, negli anni ottanta, un pericolo (più o meno concreto) per l’Italia. Ma, tuttavia, il regime del Colonnello è stato sempre orientato verso un approccio laico e non islamista. Oggi, invece, il rischio che la Libia possa cadere in mano agli islamisti non è forse concreto ma di certo non è impossibile. Avere una nuova Somalia a soli 300 km dalle coste.
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