L'incoerenza americana sulla rivolta egiziana
In un’intervista al Washington Post il generale Abdel Fatah al-Sisi ha duramente attaccato Stati Uniti e Unione Europea per la posizione presa nei confronti dell’Egitto in seguito alla deposizione di Morsi: “Dov’è il ruolo di Usa, Eu e le altre forze internazionali interessate alla sicurezza, la stabilità e il bene dell’Egitto? Forse i valori di libertà e democrazia sono esercitati soltanto da voi mentre gli altri paesi non ne hanno diritto? Avete visto i milioni di egiziani scesi in piazza Tahrir per chiedere un cambiamento”?
In seguito alla posizione presa dal governo Obama, il quale ha criticato l’intervento dei militari che ha portato alla caduta di Morsi, le dure dichiarazioni dell’ex ambasciatrice Anne Patterson nei confronti dei manifestanti e le minacce di interrompere i finanziamenti militari nei confronti del paese, gli egiziani hanno reagito pacificamente ma con determinazione, accusando gli Usa di essere dalla parte dei Fratelli Musulmani, criticando i servizi di emittenti come la CNN e i suoi reportage “a senso unico”, fino a chiedere l’espulsione dell’ambasciatrice.
Per quale motivo un paese che da sempre si pone come baluardo della democrazia nel mondo in questo caso non ha appoggiato la rivolta di quel popolo egiziano stanco di un governo islamista anti-democratico? La risposta è possibile trovarla nella politica estera dell’amministrazione Obama che sembra fare acqua da tutte le parti.
Secondo gli Usa l’unica alternativa ai regimi dei deposti Mubarak e Ben Ali – rispettivamente in Egitto e Tunisia – erano i Fratelli Musulmani in quanto godevano di un consistente appoggio da parte della popolazione, erano finanziati dalle classi medie e particolarmente amati dalle classi meno abbienti per una serie di attività in ambito sociale che gli avevano permesso di costruire un vero e proprio “stato parallelo” come illustra l’esperto Wael Farouq: “Il regime di Mubarak ben sapeva che gli egiziani poveri non avrebbero mai offerto i propri soldi al suo Stato corrotto e ha lasciato che queste associazioni fondassero uno Stato parallelo che forniva servizi sanitari e istruzione. Questo Stato parallelo pagava addirittura regolari sussidi di disoccupazione alle famiglie più povere, contribuendo alle spese necessarie per far sposare le ragazze e aiutando migliaia di giovani ad avviare piccoli progetti”.
Secondo gli Usa, l’appoggio nei confronti dei Fratelli Musulmani e un loro insediamento in paesi come Tunisia, Egitto e persino in Siria, poteva dunque portare a una nuova presunta stabilità in Medio Oriente. L’amministrazione Obama avrebbe dunque investito milioni di dollari per finanziare i governi vicini ai Fratelli, senza rendersi però conto della complessità del contesto egiziano, del sospetto nutrito da parte di molti nei confronti della Fratellanza ma, soprattutto, dell’immaturità ed incapacità di governare da parte di un’organizzazione schiava di una mentalità ancora legata agli anni 60-70, che ha ancora ben impressa la repressione del ’54 e che ha fatto emergere come quadro dirigente l’ala più estrema della Fratellanza, più vicina a posizioni “Qutbiane” piuttosto che a quelle del fondatore Hassan al-Banna. Il resto lo si è visto in un anno di governo Morsi.
Così, i nuovi alleati degli Usa in Medio Oriente, al posto di Israele, Giordania, Emirati Arabi e Arabia Saudita sembravano essere diventati Ennahda in Tunisia, l’FJP in Egitto, l’AKP di Erdogan e i ribelli siriani. Non è un caso che alla conferenza sulla sicurezza nel Golfo tenutasi a Dubai nel gennaio 2012, il capo della sicurezza dell’emirato, Dahi Khalfan Tamin ha duramente attaccato l’amministrazione Obama accusandola di aver abbracciato la causa della Fratellanza e dunque di non essere più un credibile alleato dei paesi del Golfo. Tamin ha inoltre rincarato la dose affermando che gli Stati Uniti non hanno amici e si limitano a cambiare posizione a seconda dei propri interessi. Sempre secondo il responsabile alla sicurezza di Dubai gli Stati Uniti avrebbero individuato nei Fratelli Musulmani un’organizzazione influente e con crescente egemonia in gran parte dei paesi del Medio Oriente e dunque un’alleanza con loro per portare al potere governi Tunisia, Libia, Egitto, Yemen e Siria avrebbe messo a repentaglio la sicurezza e la stabilità dei paesi del Golfo.
In seguito alla rivolta popolare egiziana che ha portato alla caduta del governo filo-Fratellanza gli Stati Uniti si sono resi conto che i calcoli fatti dai loro analisti non erano poi così esatti: la Fratellanza non godeva di un appoggio così forte da parte delle popolazioni locali, come hanno dimostrato anche i fatti in Tunisia e Libia.
L’amministrazione Obama, pur avendo duramente condannato la deposizione di Morsi, si è guardata bene dal definire l’intervento dell’esercito come “golpe”, onde evitare di dover prendere quei drastici provvedimenti per quanto riguarda i finanziamenti all’esercito egiziano, che sarebbero potuti diventare controproducenti per gli stessi interessi americani nel caso in cui la rivolta popolare anti-Ikhwan avesse riscosso successo. Vi era inoltre lo spettro di un possibile avvicinamento dell’Egitto alla Russia di Putin e alla Cina, fattore che avrebbe messo a serio rischio un’egemonia americana nella regione che negli ultimi anni sembra essersi notevolmente indebolita.
I primi di agosto giunge poi la dichiarazione “shock” del Segretario di Stato americano John Kerry, il quale ha affermato che l’esercito egiziano è intervenuto su richiesta del popolo per ripristinare la democrazia in un paese che rischiava di piombare nel caos e nella guerra civile. Ha inoltre aggiunto che l’esercito non aveva assunto il potere in quanto il governo in carica è composto da civili. Una dichiarazione che ha lasciato di stucco e ha scatenato le ire dei Fratelli Musulmani, i quali si sono sentiti traditi dal presunto alleato.
Che gli Stati Uniti, resisi conto dell’impossibilità di imporre un ritorno di Mursi e di un governo filo-Fratellanza in Egitto, stiano valutando nuove pragmatiche alleanze che vadano di pari passo con i nuovi assetti interni del paese?