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Diritto di critica | November 24, 2024

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Ligresti, crolla l'impero costruito sulla corruzione

ligrestiScritto da Francesco Rossi

La notizia si è diffusa nel mondo della finanza italiano con la rapidità di un fulmine: il Tribunale di Torino ha ordinato l’arresto della famiglia Ligresti al gran completo, nell’ambito dell’inchiesta sul crack delle assicurazioni Fonsai. Da ieri il capofamiglia Salvatore è ai domiciliari, le figlie Giulia e Jonella in carcere, e il figlio Paolo risulta irreperibile (dovrebbe essere in Svizzera, dove risiede). In manette sono finiti anche Fausto Marchionni ed Emanuele Erbetta, ex amministratori delegati di Fonsai, e Antonio Talarico, vicepresidente pro-tempore. L’accusa, per tutti, è falso in bilancio, per aver occultato, nel solo 2010, un buco da 538 milioni di euro.

Borse, cavalli e palazzi. Le indagini torinesi stanno portando alla luce le presunte malefatte di una famiglia che, per anni, avrebbe gestito aziende come fossero bancomat personali. Attività talmente torbide da rendere difficile, per lo stesso Gip, la ricostruzione puntuale di quanti soldi siano transitati da Fonsai alle tasche private dei Ligresti. Di certo i modi per operare questi travasi erano molteplici. In primo luogo le consulenze: dagli atti emergerebbe infatti che i Ligresti erano a libro paga delle loro stesse aziende e percepivano compensi milionari. Il vero filone d’oro, però, erano le operazioni con “parti correlate”, cioè altre imprese di famiglia. Giulia, ad esempio, sarebbe riuscita a farsi finanziare per anni la sua casa di moda (disegnava borse), con discutibili operazioni di co-marketing e accordi di fornitura. Jonella avrebbe puntato sui cavalli, ottenendo sponsorizzazioni milionarie per i purosangue della sua scuderia. Paolo, invece, avrebbe avuto il pallino per gli immobili, e fatto concludere a Fonsai investimenti disastrosi (ma fruttuosi per le aziende immobiliari di famiglia). E in conto andrebbero messi anche vacanze esotiche, aerei privati, residenze sparse un po’ ovunque, ecc. Tutto a spese di piccoli azionisti e risparmiatori.

Amicizie potenti. Quello che ha tenuto in piedi i Ligresti ed il loro gigantesco bluff è stata la capacità di costruire relazioni di interesse, di fare e farsi restituire favori. Salvatore Ligresti è sempre stato un abile frequentatore del “salotto buono”, molto vicino a Mediobanca, e capace di tessere “amicizie” potenti. Una su tutte: quella con Silvio Berlusconi. Secondo i magistrati di Milano (che hanno in mano un altro filone dell’inchiesta), proprio la vicinanza con l’ex-premier consentì al patron di Fonsai, nel 2010, di fare pressioni su Giancarlo Giannini, allora presidente dell’Isvap (organismo di controllo delle assicurazioni). A lui “don Salvatore” chiese di chiudere un’occhio sulla situazione finanziaria di Fonsai. In cambio si offrì di intercedere presso Berlusconi per caldeggiare la sua nomina a Presidente dell’Antitrust. Un torbido intreccio di interessi tra controllore e controllato, con buona pace della trasparenza.

“Capitalismo di corruzione”. Lo scandalo Ligresti appare esemplare di un certo modo, tutto italiano, di intendere gli affari. “Capitalismo di relazione” lo definiscono in molti, ma in qualche caso sarebbe meglio parlare di “capitalismo di corruzione”. Quel capitalismo fatto di piccole partecipazioni azionarie “strategiche” che consentono, mediante meccanismi di ingegneria finanziaria, di controllare intere imprese, investendo poco e rischiando ancora meno. Quel capitalismo in cui non vince chi ha più soldi o idee migliori, ma chi sa muoversi meglio nel sottobosco del “do ut des”, dello scambio di favori personali. Quel capitalismo che, troppo spesso, ha ridotto sul lastrico imprese strategiche.

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