La recensione - "Mabel dice sì", incontro con Luca Ricci - Diritto di critica
Un albergo, il via vai di una reception, le lunghe attese del turno di notte e la corona di personaggi che gravitano attorno al protagonista – un giovane studente di pianoforte che si accontenta del “lavoretto” in hotel per arrotondare – e a Mabel, una donna con un nome “parlante”: “Amabile”.
Il romanzo di Luca Ricci, “Mabel dice sì” (edito per i tipi Einaudi), avvolge il lettore in un’atmosfera di leggerezza profonda, capace con poche parole – asciutte e puntuali – di raccontare circostanze, gangli e nodi sempre uguali, passaggi dell’esistenza che accadono in tempi diversi nella vita di ciascuno. E’ l’uomo che apre gli occhi su se stesso, che si scrolla di dosso illusioni per troppi anni chiamate “sogni” e viene svezzato alla vita, smette di inseguire l’impossibile e inizia a calcare i primi passi nel reale. Ed è così che i confini dei rapporti interpersonali sfumano, non sono mai netti e la vita scorre al di fuori dei canoni della facilità, della banalizzazione con cui spesso vengono giudicati il giusto e lo sbagliato.
Al centro di tutto, Mabel, una sorta di santa laica dei nostri tempi, capace di custodire nelle sue mani il cuore di un uomo. Per molti dipendenti dell’albergo Mabel è una ragazza facile – una consolatrice sessuale di improbabili viaggiatori – per chi come il protagonista riesce invece ad intuirne il sorriso degli occhi e il valore dei gesti, Mabel diventa la dispensatrice di quell’ultima speranza di calore umano che ciascuno ricerca con angoscia un attimo dopo essere stato messo al mondo, mentre piange, espulso dall’utero.
E se nell’albergo si svolgono le vicende di Mabel, all’esterno la vita dell’altro giovane protagonista cambia, muta, si stacca dall’esistenza precedente come una seconda pelle. E viene abbandonata. La scelta, ad ogni passo e ad ogni pagina – sia nei rapporti interpersonali che nelle vicende lavorative – è il ritmo del romanzo, fatto di una scrittura intelligente e di una lettura semplice ma non facile, una storia che non è d’amore ma dell’amore sfiora tutti i sentimenti e i corollari.
“Ero soltanto un ragazzo spaventato che voleva darsi un tono – scrive Ricci all’inizio del romanzo, e sono parole che tracciano la via delle pagine successive – Un giorno mi credevo un virtuoso del pianoforte, il successivo un nullatenente. E lei sembrò capirlo subito. Ai miei modi respingenti rispose con un altro sorriso sottecchi, quel tipo di «sorriso degli occhi» che, per quanto sia un’espressione abbastanza comune, col tempo ho finito con l’associare esclusivamente a lei”.
E per capire come sia nato il romanzo “Mabel dice sì”, abbiamo incontrato l’autore, lo scrittore e drammaturgo Luca Ricci (@LuRicci74), giunto al suo secondo romanzo (dopo La persecuzione del rigorista, Einaudi 2008).
Luca, quando e come hai creato la vicenda di Mabel?
Era l’autunno del 2010 e dopo qualche mese sarei diventato padre. Non facevo altro che pensare: quando sarà nata mia figlia quanto tempo mi resterà per scrivere? Così mi sono messo al lavoro pungolato da quella paura, come se avessi dovuto scrivere il mio ultimo libro, in un certo senso. E’ come se inconsciamente avessi escluso tutte le storie fittizie, quelle su cui magari avrei potuto impostare un romanzo vero e proprio, fatto d’intrecci poderosi e lunghe digressioni. Mabel dice sì è nato da un’urgenza di raccontare quello che mi premeva davvero raccontare- cosa comunque assai diversa dall’andare di fretta.
Come è nata invece Mabel nella sua singolarità, personaggio quasi trasparente, ubiquo, la cui unica missione pare essere quella di consolare e tenere in mano l’essenza degli uomini che incontra?
Non so esattamente come sia nata Mabel: non si ispira a nessuna donna che ho conosciuto realmente. Nel tratteggiarla ho semmai rubacchiato da diverse donne del mio passato, e con ogni probabilità soprattutto da me stesso. Ma la cosa che più m’importava era di tenere la vicenda in primo piano, a ogni pagina doveva succedere qualcosa, anche d’impercettibile, che mandasse avanti la storia. Molti libri scaturiti da personaggi forti, sulla carta diciamo pure memorabili, non spiccano mai davvero il volo. Tutto è scritto proprio in funzione del personaggio, il personaggio diventa il fine e non il mezzo della narrazione.
Il precariato e l’incerta società attuale giocano un ruolo importante nel romanzo e nella crescita del protagonista. Il protagonista abbandona i sogni (o i progetti?) di una vita per scendere a compromessi con il reale: maturazione interiore o sconfitta?
Mabel dice sì non è un romanzo a tesi. Mi spiego: non l’ho scritto per dimostrare qualcosa che avevo deciso di dimostrare a priori, per fornire un modello sociale o per dare delle risposte circa la crisi del mondo del lavoro. Un romanzo non può non parlare del proprio tempo (esattamente come non può non parlare di chi l’ha scritto): perciò l’unico dovere dello scrittore resta la sua storia, quella che vuole raccontare, che è al contempo più falsa e più vera della Storia collettiva che stiamo vivendo in quanto individui e in quanto cittadini.
L’amore come sentimento pervasivo e non definito entro i binari tipici del vivere “civile” (vedi il chiacchiericcio delle cameriere invidiose), nel tuo libro diventa qualcosa di salvifico che pochi sanno comprendere se non quanti ci si abbandonano. È una critica ai canoni tradizionali della società (non per forza cattolici, lo stesso personaggio di Mabel ha un che di spirituale)?
Penso sinceramente alla scrittura e alla letteratura come a un tipo di religione intelligente. Le storie prodotte in serie per essere consumate non m’interessano: prima che da scrittore proprio come lettore. L’intrattenimento non m’intrattiene, ecco cosa. Ho bisogno di avvertire una tensione verso la verità, che poi in termini letterari si traduce spesso in una tensione formale. Un libro deve parlarmi anche di se stesso, mentre veicola una storia, deve avere la capacità di sfondare la storia che sta raccontando: in questo senso si può parlare di metafisica della scrittura.
La libreria di Luca Ricci: quali sono i libri che ti hanno formato e indicato la via?
In scrittori come Raymond Carver o Thomas Bernhard ho trovato quella specie di preghiera sottoforma di Opera Letteraria di cui parlavo. Ma ci sono tanti maestri, potrei dire anche Maupassant o Ionesco. In questi scrittori, anche in uno come Bernhard che di certo non può dirsi minimalista, riconosco la stessa tensione per la storia, ma anche un grande afflato filosofico di fondo, che permea e riesce per l’appunto ad aprire varchi nella pura e semplice narrazione.
Dove e quando ti piace scrivere?
Credo che messo alle strette riuscirei a scrivere dappertutto, e in qualsiasi momento. Ma potendo scegliere sono molto abitudinario, quindi dico nello studio di casa mia, preferibilmente al mattino. Non sono uno di quegli scrittori da tavolino del caffè, o che riescono a scrivere interi capitoli su fogli volanti o su taccuini da viaggio. Quando incamero vita, cerco di farlo fino in fondo; quando scrivo invece scrivo.