Brasile, quando il business dello sport vince sulle rivendicazioni sociali
Non sono valse a nulla le parole della presidente Dilma Rousseff, pronunciate sabato scorso. Le manifestazioni si sono moltiplicate in Brasile contro la corruzione e il carovita, degenerando in scontri con la polizia soprattutto fuori agli stadi dove si sta giocando la Confederations Cup. Prima a Salvador, dove sabato sera si sono affrontate l’Italia e i padroni di casa. Poi, a Belo Horizonte, dove si è disputata Messico-Giappone. Sugli spalti degli impianti, nonostante i divieti della Fifa, sono stati affissi numerosi striscioni.
La polizia ha utilizzato le maniere forti per disperdere i manifestanti sparando gas lacrimogeni, proiettili di gomma e gas urticanti. Secondo le fonti della polizia, sono state circa 125mila le persone che si sono riversate per le strade della città. Finora il bilancio degli scontri parla di 25 feriti, tra cui cinque poliziotti, e 22 arresti. C’è preoccupazione per i campionati del Mondo che si disputeranno nel 2014. La presidente Rousseff assicura che l’impegno sarà onorato con i massimi standard di sicurezza. Intanto, un sondaggio rivela che il 75% della popolazione brasiliana appoggia e condivide le rivendicazioni dei manifestanti. Una percentuale molto alta, della quale il governo non sembra voler tener conto. Sull’organizzazione dei campionati mondiali, il 40% si dichiara ‘‘totalmente a favore’’ e solo il 29% è ‘‘contrario’’.
Non è la prima volta che la logica del business impone scelte sportive che contrastano con la volontà popolare. In Italia, dopo la nascita delle pay tv, si è assistito a un cambiamento della ‘‘dieta calcistica’’ nelle abitudini degli italiani. Le televisioni hanno imposto lo spezzettamento dell’evento sportivo spalmato, ora, su tutti i giorni della settimana. Partite a orari proibitivi durante l’inverno e l’estate. Scarso interesse per la salute dei giocatori, a tutti gli effetti i protagonisti dell’incontro, ma poco tutelati. La stessa logica del doping è figlia di uno show business che non risparmia l’atleta. Al calciatore, così come al ciclista, è richiesta una prestazione sportiva sempre al top, nonostante l’aumento di intensità e frequenza dell’impegno settimanale.
Ma uno degli eventi più tragici, che è rimasto impresso nell’immaginario collettivo come la partita di calcio che doveva essere interrotta, è quella disputata allo stadio Heysel tra Juventus e Liverpool il 29 maggio del 1985. Durante la finale di Champions League, l’evento calcistico più importante del continente europeo, in uno stadio fatiscente persero la vita 39 persone, di cui 32 italiane, e ne rimasero ferite oltre 600.
L’assoluta impreparazione delle forze dell’ordine, in seguito ad alcune cariche dei tifosi inglesi contro quelli italiani, determinò la fuga incontrollata dei supporter juventini verso il settore adiacente a quello dove erano assiepati. Il crollo di uno dei muri dello stadio determinò la morte di molte persone che rimasero anche schiacciate nella ressa che si era creata. La partita fu interrotta per alcuni minuti, ma riprese fino alla conclusione nonostante i soccorsi stessero constatando la carneficina. Un evento sportivo di quell’importanza non poteva essere interrotto, a causa degli interessi economici che vi gravitavano intorno.
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Il business sfrenato distrugge tutto, compreso lo sport.
Per questo a mio parere bisognerebbe boicottare questi modiali così come tutte le pay tv che trasmettono sport.
Ma al cittadino medio non interessa tutto questo: puoi togliergli tutto, ma prova a toccargli il calcio e sei finito.
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