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Diritto di critica | November 21, 2024

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Altro che Palestina, Obama pensa all'atomica iraniana

obama israele

di Francesco Rossi

Comprendere i palestinesi, lavorare per la pace. Con queste parole Obama chiede ai giovani di Gerusalemme nuovo impegno e fede nel cambiamento, ma arriva a mani vuote: l’America pensa al nucleare iraniano, alla bomba siriana e alla real politik del petrolio. La pace può attendere.

Viaggio della speranza (delusa). In Medio Oriente Obama prova a risistemare qualche pedina dello scacchiere geopolitico. Appena sceso dall’aereo, ha abbracciato “calorosamente e fraternamente” l’anziano presidente Shimon Peres, ultimo protagonista vivente degli accordi di Oslo e Camp David. Per Netanyahu una stretta di mano, più fredda che cortese. E anche con Abu Mazen i rapporti son sembrati abbastanza freddi. I colloqui avuti con i due contendenti attraverso le tappe di Gerusalemme, Ramallah e Petra sono stati improntati alla real politik, piuttosto che alle svolte epocali: piccole contrattazioni per disinnescare – con cautela – i temi più scottanti.

“Due popoli, due Stati”. Già prima di partire, Obama era stato accusato di non avere le idee chiare sul conflitto israelo-palestinese. Il leader democratico ha nuovamente richiamato la soluzione dei “due popoli, due Stati”, definita “l’unica alternativa possibile”, invitando i due contendenti a sedersi al tavolo delle trattative senza pre-condizioni; rivolgendosi agli studenti di Gerusalemme, li ha esortati a “scrivere la storia” scegliendo la pace. Dov’è il piano d’azione, oltre la retorica – peraltro senza risposta, visto il silenzio di Netanyahu e il rifiuto di Abu Mazen a qualsiasi dialogo finché proseguono gli insediamenti?

La bomba iraniana. In realtà il vero obiettivo del viaggio di Obama in Israele era altro: sciogliere la questione iraniana. Da una parte la Palestina, rebus vecchio di 60 anni di insuccessi e ostacoli, dall’altra l’Iran, una minaccia nuova e concreta per gli interessi americani in Medio Oriente. La scelta è scontata.

Ufficialmente Obama si è schierato a fianco di Israele, riconoscendogli il diritto di “difendersi come vuole” (anche con attacchi preventivi, quindi). Ma, a conti fatti, Washington non ha interesse (e ancora meno voglia) a farsi trascinare, dal suo alleato, in un nuovo e imprevedibile conflitto. I fronti tutt’altro che chiusi in Iraq e Afghanistan sono più che sufficienti ad impegnare l’esercito a stelle e strisce. Senza contare che una guerra nella regione farebbe esplodere definitivamente la polveriera siriana, su cui Obama e l’intero Occidente non sanno che pesci prendere.

A fare le spese di una real politik targata Stati Uniti, al di là della retorica, proprio la Palestina e il processo di pace, che rischiano di restare schiacciati dalle manovre geopolitiche sulla Siria. Si tratterebbe di una nuova forma di indifferenza. E per le speranze di pace sarebbe l’ennesima sconfitta.