Dalla speranza alla delusione. Il destino crudele di "Pubblico"
Quante vite può avere un giornale? Tante, ci insegnano i quotidiani nazionali. È normale, nel mondo dell’Informazione, nascere-crescere-evolversi e, talvolta, purtroppo, anche morire. Pubblico, il giornale di Luca Telese e Tommaso Tessarolo uscito in edicola per la prima volta il 18 settembre scorso, ha vissuto in meno di sei mesi tutte le fasi di un normale giornale, di quelli che hanno attraversato decenni di storia italiana e oggi tentano, come tutti, di affrontare il mercato come meglio possono per non soccombere.
Un giornale senza una guida. Ma sono bastati tre mesi per scoprire che Pubblico il mercato non lo poteva reggere. O meglio, da quello che si è capito nei mesi scorsi stando alle dichiarazioni della società editrice, Pubblico il mercato non aveva i mezzi per affrontarlo proprio: non una società in grado di comprendere e gestire la grande distribuzione, non una reale percezione di come si fa un quotidiano nazionale e soprattutto non un business plan adeguato, su cui ricadono molte perplessità: solo 600mila euro di partenza versati da 17 soci, decisamente troppo poco per un quotidiano nazionale con una tiratura media superiore alle 40mila copie e con conseguenti costi di carta e distribuzione che hanno velocemente bruciato l’investimento, a fronte di 4mila copie vendute. A ciò si aggiunge la totale assenza di un piano marketing a sostegno del prodotto. Il risultato è stato che il 31 dicembre 2012, «il quotidiano che stava dalla parte degli ultimi e dei primi», ha smesso le pubblicazioni e dal primo gennaio 2013 diciotto redattori e numerosi collaboratori occasionali sono rimasti senza un lavoro. Senza uno stipendio. Il tutto, per l’incapacità gestionale di qualche Ego un po’ troppo grande.
La speranza e la delusione. Poi, ieri, la notizia che sembrava aver riportato un po’ di serenità: Alessandro Proto, il finanziere-immobiliarista 38enne, compra il giornale per 400mila euro e si incarica anche dei 200mila euro di debito precedentemente accumulato. Addirittura investe 4milioni di euro nel progetto. Quanta generosità, penserete. L’abbiamo pensato – o meglio, sperato – un po’ tutti. Invece Proto, già precedentemente indagato a Lugano per riciclaggio, conferma che in Italia di editori puri non ne esistono, dichiarando: “È un investimento strategico, era arrivato il momento di avere un mio giornale”. Il perché di questa necessità impellente lo si spiega appena un paio d’ore dopo la notizia dell’acquisto, quando in molti avevano tirato un sospiro di sollievo all’idea che la redazione in blocco fosse stata salvata. Alle ore 18.30 di ieri, infatti, esce la notizia: Alessandro Proto viene arrestato e condotto a San Vittore. L’accusa? Aggiotaggio e truffa.
Futuro incerto. Che cosa ne sarà ora di Pubblico è difficile a dirsi: dal giornale non è arrivato nessun comunicato, né la società editrice ha chiarito la faccenda. La trattativa sulla cassa integrazione dei 18 redattori non è ancora stata chiusa, e questo complica la condizione di coloro che, fiduciosi del progetto di Telese, avevano lasciato contratti a tempo indeterminato. E proprio in queste ore, il Direttore, su twitter, ci tiene a ribadire di essersi dissociato dal progetto Proto, facendo intendere che la scelta di vendere al finanziere fosse della sola redazione. Ma Telese, in verità, s’è ben guardato dal dimettersi e non si è mai opposto alla vendita perché, in qualità di socio promotore, lo avrebbe fatto in parte rientrare nel capitale investito e gli avrebbe tolto la grana dei debiti della società: tra questi, rientrerebbero anche le spettanze non pagate a oltre cento collaboratori a borderò, responsabili e collaboratori degli inserti. Un atteggiamento, quello di Telese, quantomeno poco coraggioso e vicino alla sua ex redazione.
Di certo, in tutta questa terribile vicenda, c’è che Pubblico in pochi mesi ha già vissuto tutte le vite di un giornale con una storia decennale. La speranza è che arrivi finalmente qualcuno in grado di valorizzare il lavoro di tanti giornalisti che proprio non ci stanno a perdere una battaglia che altri non hanno voluto combattere.
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