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Diritto di critica | November 5, 2024

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Django. Tarantino convince ancora una volta - Diritto di critica

Leonardo di Caprio in Django

di Francesco Ruffinoni

Alla vigilia della Guerra Civile, in un’America grottesca e senza pietà, il dottor King Schultz (Christoph Waltz), cacciatore di taglie di origine tedesca, è alla ricerca dei fratelli Brittle, per consegnarli alla giustizia (vivi o morti importa poco) e incassare la ricompensa. Sulla sua strada incontra Django Freeman (Jamie Foxx), schiavo nero prostrato, nel corpo e nell’anima, dalle catene del razzismo bianco. Il dottor Schultz libera il giovane prigioniero, poiché necessita del suo aiuto per smascherare e uccidere i sadici Brittle, promettendogli, in cambio, la libertà. Fra i due si crea un vincolo umano, oltre che professionale, che li porterà, fra piantagioni e sparatorie, alla ricerca della moglie di Django, Broomhilda (Kerry Washington), venduta come schiava a Monsieur Candie (Leonardo DiCaprio), perfido latifondista.

Tarantino non delude. Ancora una volta, il regista di Pulp Fiction (1994), si cimenta in un lungometraggio che si svincola da una categoria filmica precisa. Il genere western, infatti, viene stravolto, manipolato, ridimensionato, fino a esplodere in un pastiche estetico farcito di colori e violenza. Una violenza mai compiaciuta né morbosa, più suggerita che mostrata, edulcorata dalla distanza narrativa post-moderna. Certo, il massacro finale pare un intermezzo pubblicitario sponsorizzato dalla H. J. Heinz Company, ma i litri di sangue che, spropositatamente, si sprecano, sono funzionali all’irridente ironia che scalza, sapientemente, pure le scene più crude. Si pensi ai corpi che, innaturalmente, volano assieme ai proiettili o alle pirotecniche esplosioni che ricordano quelle di un moderno animated cartoon. Ma l’ironia vive, per prima cosa, nei dialoghi e nelle battute dei protagonisti. Il dottor Schultz, per esempio, con i suoi modi sbrigativi e improbabili, con la sua parlantina barocca, non può che suscitare l’ilarità dello spettatore, mentre la magistrale parodia del Ku Klux Klan, potrebbe essere una scena degna di Mel Brooks.

Se si apprezza questo film per la sceneggiatura brillante non si può, però, non riscontrarne pure i limiti. I protagonisti chiacchierano troppo, ma questo loro parlare in continuazione non riesce a plasmare dei personaggi credibili, a tutto tondo, ovvero personaggi come quelli che, tramite battute memorabili, hanno reso apprezzabile  un film come Le iene (1992).

Inutile, come molti hanno fatto, parlare di revisionismo storico, o criticare gli anacronismi presenti nel film. A Tarantino non interessano gli eventi della Storia o, per lo meno, non li reputa fondamentali, come non erano fondamentali in Bastardi senza gloria (2009). Tarantino rivela un linguaggio narrativo febbrile, composto da immagini e suoni ben precisi, più interessato ai colpi di scena che alla veridicità dei fatti o a qualche morale precostituita. Il regista, fedele al suo stile, non ha la pretesa di trasmettere alcun valore, ma di evidenziare le contraddizioni insite nel caotico consorzio umano, saturo di ingiustizia e di odio. Emblematica, a tal proposito, l’epifania del cotone sporco di sangue: non più il sangue dello schiavo, ma quello dell’aguzzino. Carnefici e vittime, dunque, vendetta e redenzione. Una dicotomia che si confonde abilmente nel cuore dei bianchi come in quello dei neri. Si pensi al bianco (e tedesco!) Schultz e, allo stesso tempo, al vecchio Stephen (un fantastico Samuel L. Jackson), reo di tradire la propria gente comportandosi come un negriero. Ma l’ossimoro si cela pure nella toponomastica dei luoghi, spesso sinistramente evocativa. Candyland, la residenza dello spietato Calvin Candie, non è altro che un luogo di disperazione e dolore, un “luna park” di violenza e prevaricazione.

La redenzione si realizzerà, in tutta la sua completezza, solo alla fine. Un finale, quello di Django Unchained, forse un po’ troppo macchinoso, stiracchiato. Il colpo di scena di Schultz, che innesca la battaglia finale, appare artificioso, gratuito, soprattutto rispetto alla logica precedente del personaggio. La lunghezza della sanguinosa sparatoria, poi, risulta essere eccessivamente lunga, discordante con i ritmi che la vicenda rivela sin dall’inizio. Esaltanti, comunque, i “fuochi d’artificio” finali, con tanto di cow-boy circense e musica di Franco Micalizzi, resa celebre dal film Lo chiamavano Trinità (1970).

Presenti, naturalmente, citazioni e omaggi cinematografici. Immancabili i riferimenti agli Spaghetti-western ma anche al Kubrick di Arancia Meccanica (1971). Piacevole il breve cameo di Franco Nero (il Django nel film di Corbucci del 1966), che intrattiene con Jamie Foxx un dialogo surreale sull’esatta pronuncia del suo nome («D-j-a-n-g-o. La D è muta».).

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