Israele, Parlamento spaccato dopo il voto - Diritto di critica
Gli israeliani smentiscono i sondaggi e capovolgono alle urne un Parlamento sbilanciato a destra. Netanyahu riesce a tenere la leadership con 31 seggi, insieme a Liebermann: ma il blocco conservatore (almeno sulla carta) si ferma a 62 voti su 120, una maggioranza risicatissima. La sorpresa vera è arrivata dal partito centrista Yesh Atid, al secondo posto con 19 seggi. La nuova Knesset dovrà per forza di cose essere moderata: dunque si prospetta una grossa frenata sul fronte degli insediamenti e delle operazioni preventive contro l’Iran, Israele sembra volere meno slogan patriottici e più razionalità.
Yesh Atid, il successo inaspettato. Si chiama Yair Lapid, è un giornalista tv convertitosi alla politica da poco. Ha preso in prestito da Obama lo slogan di 4 anni fa, declinandolo nella sempreverde “C’è un futuro”. La sua proposta politica è laica, va a pescare tra gli indecisi della classe media: quella fetta di popolazione che è lontana dagli insediamenti dei coloni in Cisgiordania e che non raccoglie i frutti della “mano di ferro” delle destre. Lapid parla di “lavorare insieme senza escludere nessuno, senza imporre decisioni sulle spalle di qualcun altro”: in particolare, riducendo o almeno attenuando quelle grosse differenze di reddito e di diritti che caratterizzano Israele. Il successo di Yesh Atid è inaspettato due volte: perché ha portato alla ribalta un partito moderato – dopo l’intervento a Gaza di novembre e il voto all’Onu per il riconoscimento della Palestina, non era affatto scontato – e perché è passato in tre settimane da un pronostico di sei seggi a 19 seggi.
Deludente invece Bennett. Focolare ebraico, il nuovo partito della “destra hi-tech” israeliana, non ha sfondato. Prima del voto, i sondaggi lo davano secondo partito della Knesset, capace di imporre a Bibi Netanyahu la propria agenda politica – dura e pura: nessun processo di pace con i palestinesi, colonizzazione del 60% della Cisgiordania, creazione di piccole enclavi palestinesi blindate dall’esercito. Naftali Bennett, il leader quarantenne che l’ha creato e guidato, viene dall’industria informatica israeliana (Tel Aviv è il secondo polo mondiale in termini di concentrazione di imprese tecnologiche, dopo la Silicon Valley), ha un passato da truppe speciali e professa: “abbiamo creato una casa per chi non consente che i nostri soldati siano chiamati criminali di guerra”. Parla di religione con la semplicità dei grandi manager. Eppure, la sua ricetta ha forse fatto più paura agli israeliani che agli stranieri. Gli indecisi l’hanno abbandonato, e si è ritrovato in Parlamento con “solo” 11 seggi, al quarto posto. Entrerà sicuramente nella coalizione di Netanyahu, ma non basta per garantirgli un governo forte.
Si torna quindi alle grandi coalizioni e alle larghe intese. Una condizione che potrebbe rivelarsi positiva, se i partiti riescono a mediare e uscire dall’empasse del processo di pace: come auspicato dal presidente Shimon Peres, che in pieno clima elettorale ha auspicato la ripresa dei colloqui di pace con Abu Mazen per la creazione di due Stati. Il rischio di una paralisi politica, però, è altrettanto plausibile, se Netanyahu non saprà moderare Liebermann e Bennett di fronte al centro-sinistra: anch’esso spaccato in una decina di partiti al di sotto dei 7 seggi, e tutt’altro che omogeneo nei programmi.
La paura vince. “C’è un Futuro”, è il nome del partito laico Yesh Atid. Ma se in altri paesi questo slogan sembra scontato, a Tel Aviv non lo è. Un editoriale uscito sul giornale conservatore Yediot Ahronot titola “Apocalypse Tomorrow”, sottolineando che “qui in Medio Oriente non viviamo sul bordo di un vulcano, noi viviamo dentro il cratere a contatto con la lava bollente”. La paura c’è ed è forte: paura sia dei nemici intorno – occulti o palesi che siano – sia dei propri governanti, che a questi nemici negli ultimi anni hanno saputo opporre solo la forza. Vedremo se il nuovo governo saprà rispondere a questa paura con soluzioni umanamente ragionevoli.