La migliore offerta, il confine labile fra arte e vita secondo Tornatore
di Francesco Ruffinoni
Dove si trovano redenzione e salvezza? Nella penombra feticistica di una moderna quadreria, o in quel fenomeno umano, gratuito e gravitazionale, chiamato amore? La migliore offerta, ultima opera di Giuseppe Tornatore, si interroga su questo, ovvero sul tipo di rapporto che intercorre fra arte e vita, sull’essenza dell’una e dell’altra e, soprattutto, quale delle due l’uomo possa realmente abitare. Il film, però, supera la narrazione solita con cui da sempre questa problematica è stata raccontata, catapultando lo spettatore in una sorta di intreccio misterioso, di noir dalla finalità quasi catartica. Virgil Oldman (Geoffrey Rush), stimato battitore d’aste, è ossessionato dalla figura femminile con la quale, però, non riesce a rapportarsi fisicamente.
Questa incapacità relazionale sfocia nella compulsività con cui colleziona ritratti di donna, di ogni epoca e fattura, gelosamente custoditi in un’enorme stanza segreta della sua casa. Un giorno, presso il suo ufficio, giunge la telefonata di una ragazza di nome Claire (Sylvia Hoeks), dalla voce nervosa ed esitante. La giovane vuole che Virgil valuti un’antica villa di proprietà dei suoi genitori, scomparsi da un anno. Dopo qualche perplessità iniziale, il vecchio battitore accetta, ignorando il controverso destino che lo attenderà oltre gli stipiti consumati della villa. Il regista articola la propria narrazione attraverso la figura dickensiana del brusco Virgil, reo non solo di sacrificare la propria vita al mondo asfittico dell’arte, ma di concepire quest’ultima come isolamento, come supplenza estetica ai propri rammarichi e al proprio passato. Questo comportamento, naturalmente, rivela un prezzo: il rischio di mutare in automa, quello stesso automa che, del resto, per quasi tutto il film, il battitore si ostina a voler ricostruire.
Gli ingranaggi che Virgil cerca non sono altro che i frammenti del suo essere, frammenti di una totalità che non può più essere edificata. Ma La migliore offerta ci mette in guardia: non tutto è così semplice come appare. Il confine fra arte e vita, infatti, è labile: «I sentimenti umani sono come le opere: si possono simulare». Se arte e vita si confondono, come riconoscerle e distinguerle? Se il sentire umano può essere falsificato, perché fidarsi del prossimo? Ecco, dunque, come risulti difficile districare la matassa, capire quale sia l’offerta più conveniente, la scelta migliore. Ecco come recuperare il tempo perduto in pochi mesi diventi impossibile, poiché tutto, anche la possibilità di un amore senile, sembra destinato a fallire. Le vicende del film, ambigue, spiazzanti, quasi indecifrabili, mostrano quanto sia sottile la soglia fra cultura e natura, fra uomo e marionetta.
Dove sta, perciò, la redenzione? Forse in mezzo agli antipodi? Forse nelle parole sconnesse del folle, di un idiot savant, di quella nana che, nel film, non riesce a leggere la realtà se non grazie a numeri e cifre, attraverso un linguaggio, quindi, a suo modo mistico? Oppure, la salvezza, si svela nell’automa, nel manichino animato di kleistiana memoria che, anche solo per un istante, è in grado di svelare la verità, di carpire, attraverso i movimenti armonici degli arti, uno sbaglio di Natura, poiché anche «in ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico».
Tornatore interpella il suo pubblico, lo fa attraverso un film che sa di paradosso filosofico, di Comédie humaine, di racconto evangelico. Numerose le citazioni: dallo Scorsese di Hugo Cabret, al Mérimée de La Venere d’Ille. Dalla trama avvincente, seppur un po’ prolissa e tautologica verso metà, La migliore offerta si affranca dallo scenario storico-epico di Baarìa, conducendo lo spettatore verso un film drammatico, a tratti gotico, a tratti sentimentale. Magistrale l’interpretazione degli attori impiegati, fra i quali spicca il sempreverde Donald Sutherland. Notevole la fotografia, diretta da Fabio Zamarion, ottima la colonna sonora ad opera di Ennio Morricone. Un film da vedere.