Libertà di stampa, 2012 anno di sangue
Il “miglior” bavaglio all’informazione è un proiettile. Lo dimostrano le cifre pubblicate da Reporter Senza Frontiere per il 2012, un vero bollettino di guerra: 88 giornalisti uccisi, 879 arrestati, quasi 2000 minacciati fisicamente di morte. Raccontare i conflitti e le tensioni nel mondo è un mestiere sempre più difficile, un delitto in molti paesi – in Siria, in Somalia, in Pakistan. Ma anche alle porte d’Europa, in Turchia, la più grande prigione per giornalisti del pianeta.
L’anno più letale. Nel 2012 sono morti quasi 90 giornalisti, un terzo in più rispetto al 2011 e alla media degli ultimi 10 anni. E’ la cifra più alta dal 1995, anno in cui l’associazione RSF ha iniziato il conteggio. Insieme ai reporter di professione, poi, ci sono blogger e cittadini-cronisti: ne sono stati uccisi 47, altri 144 sono stati arrestati. Perché questo boom di delitti contro la libertà d’informazione?
“Il numero straordinariamente alto di giornalisti assassinati nel corso del 2012 è in prima istanza imputabile al conflitto in Siria, ai disordini in Somalia e alla violenza talebana in Pakistan”. Lo afferma il segretario generale di Reporter Senza Frontiere, Christophe Deloire, che aggiunge: “l’impunità di cui godono gli autori degli abusi incoraggia la violazione dei diritti umani, in particolare della libertà di informazione”.
Siria, Somalia, Pakistan. In Siria, giornalisti e “netizens” (cittadini-cronisti) vengono uccisi da entrambe le fazioni: il regime di Assad impone una durissima censura, chi cerca informazioni sul campo rischia di essere “sparato” come terrorista, o bombardato durante gli assedi. Dall’altro lato, i ribelli accettano solo “buone notizie”, e tendono ad accusare di spionaggio chiunque faccia domande troppo precise sulle loro azioni sui civili. In Somalia, le milizie Al-Shabab dominano il territorio al di fuori delle grandi città: il risultato è una terra senza legge dove le armi impongono il silenzio a qualunque critica. Il Pakistan, altro paese “caldo”, ha visto morire un giornalista al mese per un anno. Tensioni con l’India, scontri tribali, corruzione, terrorismo e narcotraffico s’intrecciano a formare uno dei territori più complessi – e pericolosi – del mondo.
Turchia, prigione dell’informazione. Ankara ha iniziato ad arrestare seriamente i giornalisti dopo la fine del regime militare. Ad oggi le carceri turche trattengono 46 reporter, per accuse legate soprattutto alla questione curda. E’ molto difficile, infatti, raccontare la realtà della condizione dei curdi senza essere accusati di terrorismo o tradimento. Non va molto meglio in Cina, dove rimangono in carcere 30 giornalisti (spesso si dice dissidenti, e qui è la stessa cosa). In Eritrea la prigionia è ancora più dura: nessuno dei 28 cronisti finiti in carcere ha avuto un processo.
Non solo giornalisti. Anche chi non ha il tesserino “PRESS” nel cappello rischia la vita. Dall’inizio della “rivoluzione araba”, è cresciuto il movimento dei netizen e dei blogger, divenuti a volte più efficaci degli stessi media tradizionali a raccontare un paese in fermento. Ma la mancanza di protezione è ancora più eclatante, e vengono spesso dimenticati. La coscienza, e il desiderio di informare, si pagano con la vita ancor oggi. Eppure, continuano a farlo, a partire per indagare sulla verità, per raccontarla fino in fondo: proprio come hanno fatto Anna Politkovskaja, Marie Colvin, Mika Yamamoto e decine di altri. Non eroi: cronisti.
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