Argo. Quando il cinema diventa questione di vita o di morte
di Jleana Cervai
Nel film diretto e interpretato da Ben Affleck la favolosa nave degli Achei si muta in viaggio di ritorno verso la libertà. Il mare si fa cielo. Nel vello d’oro è avvolta la lotta per la sopravvivenza. E il cinema diventa davvero e più che mai a fact of life.
La materia prima l’ha fornita la realtà, spesso in grado di architettare le migliori e più imprevedibili regie, offrendo una vicenda rimasta nella memoria collettiva come modello di cooperazione internazionale. Innegabile merito del regista però quello di aver saputo costruire e tenere costante un ritmo ad alta tensione, creare una commistione di generi rispecchiando la mobilità del reale che sfugge a qualsiasi catalogazione, governare una storia a più livelli senza lasciare fili interrotti e al tempo stesso senza aggiungere nulla più del necessario, e forse in definitiva lanciare un messaggio forte, – non gridato, ma reso ancor più solenne dalla pacatezza che lo accompagna, – a favore del cinema.
I fatti realmente accaduti, e sapientemente trasformati in un thriller che non conosce cali di tensione ma solo un crescendo a vortice di emozioni, si possono riassumere in poche righe: nel 1979 sei cittadini statunitensi dell’ambasciata americana di Teheran sfuggono ai rivoluzionari che avevano preso d’assalto quest’ultima in segno di protesta contro l’ospitalità offerta dagli USA allo Scià Mohammad Reza Pahlavi e trovano rifugio presso la residenza dell’ambasciatore canadese. Come riuscire a farli tornare in patria? Si organizza un’esfiltrazione: si sceglie di correre il rischio dell’inverosimile, di una messa in scena che è bene sia il più eclatante possibile perché «se vuoi vendere una bugia lascia che la stampa la venda per te»: una produzione hollywoodiana funge da cavallo di Troia, Tony Mendez agente della CIA specializzato in esfiltrazioni riveste i panni di Ulisse, e al riparo degli storyboard della sceneggiatura (realmente acquistata) di un film di fantascienza dal titolo Argo, i sei riguadagnano la libertà e la strada verso casa.
Ciò che meraviglia è la solidità d’impianto del film, che sviluppa coerentemente dall’inizio alla fine, in maniera a tratti scoperta a tratti più velata, l’intreccio tra il mondo della piccola e della grande Storia e il mondo del cinema, ovvero tra la realtà e la finzione. Lo realizza dapprima attraverso un efficace montaggio alternato: si sussegue l’avvicendarsi delle inquadrature in cui donne iraniane difendono la causa della rivoluzione, diventando nella cornice dello schermo televisivo attrici protagoniste della scena internazionale di quei giorni, con quelle in cui attori hollywoodiani provano il copione che narra di alieni e robot destinato a uscire dallo show business per “realizzarsi nella realtà”, andando a scrivere se non una pagina di certo almeno qualche riga di storia contemporanea. L’intreccio avviene anche attraverso puri tocchi visivi di grande impatto che, messi al posto giusto, acquistano una valenza simbolica universale: basti pensare a quell’impiccato – vittima come tutte le vittime, correlativo oggettivo della guerra e della sua portata di morte – appeso come un burattino a un cielo opaco, strappato, immobile come immobile è il tempo in cui sono sospesi i sei protagonisti prigionieri del loro rifugio prima che la stasi forzata esploda nell’azione e nell’energia dinamica della pellicola. E infine l’incrocio tra realtà e finzione, essenza e apparenza, concretezza e illusione, ha luogo attraverso la modalità verbale: c’è uno scambio di battute alla fine del film molto intenso e carico di significato. Una volta che la missione è stata compiuta a Tony Mendez resta un rammarico: suo figlio non potrà vederlo nel momento in cui sarà insignito dell’Intelligence Star. All’esclamazione del suo superiore «Se volevamo gli applausi dovevamo andare al circo», Mendez risponde: «E non è un circo questo?». In queste parole leggiamo lo sguardo profondo e malinconico del protagonista, e al tempo stesso del regista, sulla realtà della Storia che troppo spesso è storia di conflitti, e capiamo che il circo è quello degli schieramenti, delle bandiere, dei giochi di potere, delle rappresaglie, delle pedine sacrificate sullo scacchiere internazionale… Mentre “la sua storiella” di alieni e robot, come Mendez stesso la definisce, è stata letteralmente in grado di salvare delle vite umane, vedendo il cinema mettersi al servizio del più nobile tra gli scopi, come ha fatto ad esempio la poesia quando sotto forma de Il canto di Ulisse ha creato una breccia nell’inferno dei lager sperimentato da Primo Levi rendendosi scudo per la difesa della sua anima e della dignità umana.
Argo sembra dunque voler far riflettere, al di là dei dati di cronaca e del triangolo Stati Uniti-Canada-Iran, sulla Storia come storia di persone. Ci riesce costruendo benissimo personaggi secondari come la governante dell’ambasciatore canadese, al bivio tra una verità rassicurante ma letale e una finzione pericolosa ma salvifica; e ci riesce mettendo Mendez di fronte al suo senso di responsabilità che lo porterà a giocarsi il tutto per tutto e ad agire contro gli ordini dei superiori, pur di non tradire le “leggi non scritte”, gli agrapta nomina di Sofocle. Senza perdere fiducia nella propria idea per quanto folle potesse apparire.
A dimostrare che non c’è realtà senza sogno, e che a volte è il sogno a salvare la realtà.