Ilva, un disastro annunciato. Ma sindacati e politica pensavano a Marchionne
Nell’ultimo anno in Italia quasi 800mila persone hanno perso il lavoro. Un dato che fa accapponare la pelle e ci fa rendere conto che nel nostro Paese la politica parla della Fiat per ignorare il resto. Molto comodo. Un po’ come per l’articolo 18: si parla delle “garanzie” che garantiscono ormai solo la metà dei lavoratori, per evitare di occuparsi di chi quelle tutele non le ha. Ieri, però, è scoppiata la bomba: Ilva. Ed è come se centinaia di piccole imprese – le stesse che quotidianamente chiudono – avessero cessato la loro attività tutte insieme, in un solo giorno. Altro che Fiat. C’è anche l’Ilva. E si tratterà di quasi ventimila posti di lavoro a rischio, tra produzione e indotto. Un’ecatombe.
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E quella dell’Ilva è una storia ben peggiore di quanto visto per la Fiat. Non ci sono i Marchionne né amministratori delegati capaci di delocalizzare, portare la produzione altrove ed evitare in questo modo che in Italia l’azienda fallisca. Nulla di tutto questo: ci sono veleni, operai che per anni hanno barattato la salute con il lavoro, e una magistratura che di punto in bianco – forse in concomitanza con un governo tecnico e non politico – ha deciso di mettere le mani su uno dei buchi neri peggiori del nostro Paese. Le acciaierie di Taranto.
Per tacer delle reazioni politiche, gli industriali di Confindustria – parte in causa nella vicenda in quanto direttamente colpiti – fanno sapere in una nota che “la chiusura dell’Ilva sarebbe un evento gravissimo per tutto il sistema industriale italiano, conseguente ad un vero e proprio accanimento giudiziario nei confronti dell’azienda”. “C’è una contraddizione evidente tra il percorso delineato dall’Aia, sul quale l’Ilva stava lavorando seriamente con ingenti investimenti e le decisioni della magistratura. Una cosa sono le responsabilità penali, su cui è importante che la giustizia segua il suo corso, altra è la continuità produttiva e aziendale, che non può e non deve essere messa in discussione, così come – prosegue la nota – la riqualificazione ambientale del territorio tarantino, che nessuno più porterebbe avanti in caso di abbandono dello stabilimento”. In ogni caso, concludono gli industriali, la chiusura dell’impianto tarantino “avrà un costo per la collettività, tra cig e oneri sociali, pari a quasi un miliardo di euro l’anno, mentre la perdita di potere di acquisto sul territorio di Taranto e provincia è stimabile in circa 250 milioni l’anno”.
Ma le condizioni critiche dell’Ilva si conoscono da anni (un po’ come per la Fiat, foraggiata con soldi pubblici per decenni senza però risolverne le criticità) e la domanda che “sorge spontanea” è: perché solo adesso? Non si poteva evitare l’assurdo braccio di ferro tra azienda, magistratura e governo e agire con gradualità negli anni precedenti? Già negli Anni settanta, infatti, diversi esperti denunciarono le condizioni precarie di salute per quanti lavoravano all’interno delle acciaierie. E non si fece nulla.
Qui – e non potrebbe essere altrimenti – si fa sempre tutto all’italiana. Anche le messe a norma.
Twitter@emilioftorsello
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All’italiana, è vero. Ma diffido di chi da colpa alla magistratura; non fosse successo niente, le bonifiche non si sarebbero mai neanche ipotizzate. E la linea dell’azienda è chiara: produco, mi reno indispensabile alla comunità locale cosi da poter infischiarmene dei vincoli ambientali/normativi, sicuro che chi mi vive vicino non possa fare a meno della mia mortale presenza. Il giorno che mi viene presentato il conto ribalto il tavolo e chiudo tutto (o almeno lo minaccio).
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