Ddl diffamazione, arriva il carcere per i giornalisti. Quando la politica teme la libera informazione
Il giornalista reo di diffamazione finirà in galera. A deciderlo, i 131 senatori che ieri hanno votato il sì all’emendamento del leghista Sandro Mazzatorta: carcere fino ad un anno in alternativa a multe da 5mila a 50mila euro. In 94, invece, hanno detto no, mentre ben 20 senatori hanno preferito astenersi.
Il sì dei senatori non solo ha battuto il Governo che proprio sull’emendamento aveva espresso parere contrario, ma ha anche fatto saltare l’accordo politico che aveva portato alla condivisione del testo Berselli (Pd). Il Presidente del Senato Schifani, subito dopo il voto segreto, ha sospeso la seduta su richiesta del vicepresidente dei senatori del Pd Luigi Zanda, richiesta presentata anche da Luigi Li Gotti (Idv) e Giampiero D’Alia (Udc). Inoltre, lo stesso Schifani ha convocato per oggi alle 12.30 la Conferenza dei Capigruppo per decidere sul da farsi ma, stando a quanto dichiarato da Berselli, Presidente alla Commissione Giustizia del Senato e relatore del ddl diffamazione, è probabile che si voglia far «morire lì» il ddl. Per Berselli, infatti, quello di ieri in Senato è stato «un voto trasversale contro la stampa. Un voto di pancia e non di cervello. A questo punto è probile che la legge non si faccia». Eppure, sappiamo bene di quanto bisogno si abbia di una nuova legge sul reato di diffamazione, e non solo per Sallusti, quanto per quelle migliaia di giornalisti che non possono tutelarsi in caso di querela.
«Questa norma passa con un voto anonimo, voi della Lega avete ottenuto un grande risultato politico», ha commentato Li Gotti, mentre dal Pd Letta ha definito «scandaloso coprirsi con il voto segreto: si abbia il coraggio di dire apertamente cosa si vuol fare». La vergogna più grande del sì di ieri è stata probabilmente proprio la segretezza del voto.
È vergognoso, in effetti, che 131 senatori della Repubblica tentino, segretamente, di far finire in carcere oltre 24mila giornalisti precari (e non solo) iscritti all’Albo, giornalisti che per definizione sono senza tutele, senza coperture, senza nemmeno uno stipendio adeguato per pagarsi un avvocato difensore o l’eventuale multa.
Una inutile “provocazione”. È vergognoso perché se è vero che il “sì” è stato votato per provocazione, come ha ammesso il Segretario della Lega Nord, Roberto Maroni, allora si deve anche ammettere che in Senato in 131 abbiano poca considerazione del giornalismo e di chi lo svolge, che per i senatori i giornalisti sono lavoratori a cui ci si può rivolgere “provocatoriamente”, ché di più non meritano. Ma sarebbe ancora più vergognoso se fosse un voto davvero voluto, un voto “puro”, perché allora significherebbe che in Senato ci sono 131 persone che vogliono mandare in carcere giornalisti che ogni giorno lottano contro una condizione di precarietà che sfianca, affatica e uccide (vedi il caso di Pierpaolo Faggiano).
Inchieste su ladri di polli. Se questa legge verrà approvata anche alla Camera, con l’emendamento votato ieri, avremo molte meno inchieste e assisteremo sempre più di frequente a interviste in ginocchio. La speranza di risalire la classifica della libertà di stampa che ora ci vede inchiodati al 61° posto sarà sempre più flebile, così come sempre più debole sarà il diritto del cittadino a essere informato. Perché ogni volta che un giornalista si troverà a scegliere tra un’inchiesta e un articolo semplice, aumenteranno le possibilità che scelga il secondo, così da evitare rogne. Allo stesso modo, il potere contrattuale dei giornalisti scenderà sempre di più, in rapporto diretto alle querele per diffamazione che potrebbero vedersi recapitare, e la minaccia del carcere diventerà la scusa grazie alla quale gli editori si sentiranno LEGALMENTE AUTORIZZATI a non fare più neanche un contratto a tempo indeterminato. I giornalisti saranno ancora, e all’ennesima potenza, precari. E anche il nostro diritto a essere informati.
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