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Diritto di critica | November 5, 2024

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"Quelle tombe rosa al cimitero"

di Tiziana Migliati

Oggi c’è un forte vento che porta un odore inconfondibile. E non si può far finta di niente. Quando è iniziata la storia dell’Ilva di Taranto così come il resto d’Italia l’ha conosciuta, per me non sarebbe stata, e non lo è, soltanto la cronaca di un evento che si sarebbe esaurito con i giorni o le settimane. Quando tutti smontano i cavalletti e le telecamere se le portano via, chiudono i taccuini e si guarda altrove. Per me è la storia di una vita, di una “gente” alla quale nonostante la mia lontananza appartengo. Un panorama urbano dentro cui sono nata e un’aria che respiro da generazioni. Abito dalla parte opposta all’Ilva, nel punto della città più lontano dai fumi, ma li ho sempre visti uscire da quelle ciminiere incastonate nel paesaggio: da una finesta di scuola, sul lungomare mangiando un gelato, dal treno quando sono andata via. “E’ così – ci dicevano i vecchi – che ci vuoi fare, è la fabbrica che dà lavoro a mezza Taranto”.

Anche mio zio e i suoi due fratelli sono entrati lì 50 anni fa, dopo il servizio militare, quando l’Italsider ha aperto regalando posti di lavoro a ragazzi che pensavano di emigrare per farsi una famiglia. Ti sistemavi per la vita se entravi in fabbrica come operaio “statale”, e di padre in figlio chi andava in pensione lasciava il posto alla prole, magari ai nipoti, oliando un po’ le serrature. Già, ti sistemavi proprio. Sono arrivati in ordine sparso un tumore al seno, una malattia autoimmune e la tiroide che fa i capricci. Che ci vuoi fare, ci dicevano, la salute va e viene. “Ma non faranno male tutti quei fumi neri e bianchi che escono dalle ciminiere”? Chiedevamo quando eravamo bambini, “ma no, vanno nell’aria e si disperdono in cielo”. Come se il cielo poi non cadesse sulla terra, con le tombe rosa al cimitero, le strade rosse che dalla provinciale immettono ai Tamburi, l’odore forte che toglie il respiro quando si alza il vento e sei lì vicino.

Ogni volta che i fumi attiravano l’attenzione di qualcuno, che protestava, di colpo perdeva la voce. E se era un politico allora arrivava la carica, la nomina, la poltrona tanto attesa, che lo portava poi a occuparsi di cose altre e più importanti. E poi le regalie della famiglia Riva alla città di Taranto. La storia è recente cronaca giudiziaria, ma la gente per strada lo sapeva: ogni volta che l’attenzione si spostava sull’Ilva le emissioni per miracolo sarebbero state nella norma. E ogni volta che si parlava di controlli, autorizzazioni ambientali, livelli di inquinamento da non superare, ci dicevamo che era la volta buona, e ogni volta arrivava la leggina ad hoc che salvava la fabbrica e affossava gli animi.

Poi, negli ultimi anni, le cose sono precipitate. La diossina trovata nel formaggio prodotto a Statte, un altro quartiere a ridosso dell’Ilva. L’abbattimento degli animali che pascolavano fra l’erba contaminata, allevatori ridotti sul lastrico. E dopo qualche mese la diossina nelle cozze coltivate nel Mar Piccolo. Quintali di mitili distrutti. Una canzone tradizionale in dialetto diceva: “Tarant ta, tu tien le giardin in mezz’ u mare”. La pesca e la mitilicultura sono nate con la città e gran parte dei pescatori sono rimasti a vivere nelle case dell’isola del borgo antico, quelle dirupate dagli anni ’50 che nessuno aveva voglia di ristrutturare. Fino a che sono arrivati i fondi europei, si sono sistemati alcuni palazzi e sono nate attività commerciali con agevolazioni notevoli. La città vecchia si è popolata di nuovi intellettuali, fricchettoni, giovani che anziché scappare sono rimasti e hanno cominciato a riunirsi, a riflettere sul futuro e a pensare a quel mostro dalle ciminiere sempre in funzione. Soprattutto la notte. Qualcuno ha iniziato a filmare quelle emissioni imponenti e le associazioni ambientaliste hanno alzato la voce, in una battaglia che sembrava destinata a scontrarsi con i mulini a vento alimentati dall’Ilva. La cronaca recente, con l’intervento della magistratura, è cosa nota.

Quel ch’è cambiato, a Taranto, sta nella coscienza popolare. Anziché chiudere le tende sul buio delle proprie abitazioni la gente ha spalancato le finestre sulle proprie vergogne: le malattie, non più punizioni divine; la disoccupazione che spinge i giovani ad arruolarsi proprio in quella fabbrica; il senso di colpa degli operai che sversano liquidi e fumi nell’ambiente, quando nessuno li vede. E questa gente in strada si è riunita, ha condiviso un destino e un progetto di vita. Per una causa. Nel nome dei figli. O per riscattare un passato e un’appartenenza territoriale. Per riprendersi la dignità. Diceva Tolstoj che ogni famiglia infelice lo è a modo suo. A Taranto siamo tutti infelici a modo nostro. Forse questa sarà la nostra forza

Comments

  1. ninco nanco

    E si, ma adesso la gente di Taranto si e’ stancata. E stata un’esteta calda, come non se ne sono mai viste a Taranto. Dalla decisione della Todisco, all’Apecar ed ai suoi ragazzi, ai 5.000 che il17 agosto con 40 gradi si sono riuniti in piazza ed hanno marciato, nonostante i soliti divieti di una questura sempre piu a difesa di un sistema che e divenuto piano piano regime. Ci hanno colonizzato per 150 anni, taranto e tutto il Sud e nonostante tutto quello che ci hanno fatto, siamo ancora qua! E questa la cosa incredibile! Non che si abbia una percentuale di disoccupazione del 25%, non che ci siano poche aziende, ma che ci siano solo il 25% disoccupazioe e che ci siano delle aziende nel Sud che cercano di fare concorrenza a quelle del nord. Siamo tornati, dopo 150 anni, siamo tornati e siamo piu incazzati dei nostri guerriglieri che avete chiamato briganti!!