Image Image Image Image Image Image Image Image Image Image

Diritto di critica | December 22, 2024

Scroll to top

Top

Il Cavaliere oscuro, il Batman "nero" di Nolan

Il Cavaliere oscuro, il Batman “nero” di Nolan

di Jleana Cervai

C’è spessore in questa pellicola, c’è una posta in gioco molto alta, che fa sì che anche chi non ama particolarmente il genere del fumetto, e la sfera dell’immaginario che lo accompagna, non sorrida ironicamente davanti alla tenuta del cavaliere oscuro, alla sua maschera e al suo mantello, perché sotto le spoglie del travestimento fantastico percepisce una forza reale.

Certo, il film fa uso come prevedibile di tutte le armi a sua disposizione per sedurre lo spettatore: scene d’azione mozzafiato, ampio e talvolta ridondante dispiego di mezzi e di uomini, iper-tecnologia, un ben nutrito numero di combattimenti, volteggi aerei fra grattacieli. Senza contare un Bruce Wayne sufficientemente eccentrico, che porta nell’anima e nel corpo i segni delle ferite del passato; una Selina Kyle languidamente felina che ci cattura con quella sua massima naturalezza nell’assestare colpi a destra e a manca, senza mai rinunciare ai tacchi a spillo; un Bane mostruoso (ma con qualche significativa attenuante a sorpresa), incarnazione di violenza e vendetta all’ennesima potenza, con una voce metallica disumanizzata che ha il suono del male; un maggiordomo come Alfred, di quelli che non si trovano più, fedele e affezionato, impeccabile nella sua eleganza esteriore, e interiore, e capace di scrutare a fondo e di toccare con le parole l’anima del miliardario di cui è alle dipendenze, pur restando sempre al proprio posto. Ecco, le parole: i dialoghi del film in generale sono ben costruiti, raramente scontati, spesso ridotti all’essenziale e proprio in quell’arte del levare della sceneggiatura è possibile percepire profondità e pluralità di significato, è possibile cogliere quell’empatia che scatta tra uno spettatore qualsiasi e un superuomo impegnato in una sfida epica, accomunati dalle scelte e dai bivi che il destino ha disseminato sulla loro strada.

Al contrario, nel mostrare, si può forse ravvisare un punto debole de Il cavaliere oscuro – Il ritorno, rappresentato dall’ingordigia visiva di una macchina da presa che ha ricreato il mondo sottoforma di Gotham City e che di questo mondo vuole mostrare tutto, magari troppo: non c’è solo la doppia, impegnativa dimensione della vita in superficie e della vita sotterranea, c’è anche il ghiaccio come via dell’esilio imposta, in alternativa alla morte, dai ribelli al potere agli uomini da loro “processati”, e c’è il deserto, luogo infernale di prigionia e scenario di una tragica vicenda… Bisogna però riconoscere che proprio nella valenza metaforica di Gotham, nel suo farsi specchio del mondo e delle umane e disumane sorti, risiede la grandezza del messaggio del film. Veniamo posti davanti all’incubo di una sete di giustizia trasformatasi in sete di vendetta e in lotta senza quartiere, animata dalla stessa furia distruttiva che si scatenava in Libertà di Verga: un incubo che sembra voler essere un monito per ricordare a quali scenari infernali possa portare la rabbia alimentata da violenza nell’abnegazione della ragione. La situazione estremizzata del film, nella sua contrapposizione sociale ed economica fra una ristretta élite miliardaria e una massa di proletariato e subproletariato, richiama inevitabilmente alla mente i tanti conflitti e i forti squilibri che caratterizzano la realtà attuale nell’era della globalizzazione, e un ulteriore aggancio forte con i nostri tempi è l’esasperazione della dimensione mediatica.

Nelle mani della Setta delle ombre i media diventano pericolosi strumenti di potere, di diffusione del terrore, anche mezzi di tortura, dietro cui si aggira lo spettro di un totalitaristico dominio delle masse. E anche questo ci può far riflettere sulla portata di un mondo in cui “tutto si connette con tutto” istantaneamente, nel bene e nel male. La questione della responsabilità umana nell’uso dei mezzi a disposizione trova il suo correlativo oggettivo più evidente nell’ambivalente reattore nucleare di Wayne: risorsa preziosissima se utilizzata per produrre energia pulita, spaventosa arma di distruzione se trasformata in ordigno atomico. In questo caso il confine fra bene e male sembra decisamente netto, mentre viene messo in campo un conflitto più delicato e meno trasparente quando si parla del “punto estremo” sperimentato dal commissario Gordon, quel confine che divide i poliziotti integerrimi da quelli corrotti, quando si parla di quelle “regole” che possono diventare “catene”, perché scivolare nell’abisso della corruzione è molto più semplice di quanto si possa immaginare.

Il conflitto più forte e più coinvolgente di tutti è però quello che si dibatte in Wayne, attratto da un doloroso cupio dissolvi, trattenuto sull’orlo del baratro dall’altruismo nei confronti della propria città in pericolo. Ed è allora che il film ci regala le sue scene più belle: quando Wayne lotta contro Wayne, contro la paura di non aver più paura di morire. Prigioniero, non gli resta che affrontare la tremenda scalata verso la libertà che in tanti tentano senza successo. Costretto a un “salto nel vuoto” in cui la scelta tra la vita e la morte non concede una seconda possibilità, Wayne segue il consiglio di un vecchio prigioniero che si fa suo mentore e salta senza corda, cioè senza possibilità di appello. Ecco al di sotto di tutti i possibili travestimenti, delle ali da pipistrello di Batman, delle mosse super-atletiche della Gatta ladra, della mostruosa maschera antidolorifica di Bane, l’immagine indelebile che ci resta di questo film: il coraggio di un uomo, non nei panni di un supereroe provvisto di armi incredibili e congegni tecnologici, soltanto il coraggio di un uomo che a mani nude si gioca il tutto per tutto. E vince.