Class action, il peggior nemico delle multinazionali in America - Diritto di critica
Fa discutere i giornali d’oltreoceano la sentenza di qualche giorno fa di un tribunale americano, che ha condannato la Ferrero ad un risarcimento di oltre 3 milioni di dollari per aver “ingannato” i consumatori della Nutella. A chiedere l’indennizzo una mamma di San Diego, seguita poi da altri genitori preoccupati per la salute dei figli: il prodotto contiene grassi saturi, ma secondo l’accusa le pubblicità in tv lo descrivono come “sano ed equilibrato”. Questa battaglia legale è solo l’ultima di una serie di class action, anche clamorose, intentate da consumatori americani (rappresentati da un leader) nei confronti di aziende o brand internazionali. La causa collettiva può durare fino a qualche anno, e in caso di sconfitta i cittadini non sono tenuti a pagare l’avvocato che li difende.
La prima importante class action della storia americana risale agli anni Sessanta, quando lo scrittore Ralph Nader fece causa, insieme ad altri automobilisti, alla Chevrolet: il modello di auto Corvair sbandava ad alta velocità a causa di un difetto di fabbricazione. Da allora la pratica è diventata uno strumento di forza collettiva e uno spauracchio per i grandi colossi industriali.
Non sempre vittorie per i cittadini. Solo la settimana scorsa la Corte Suprema ha respinto la richiesta di class action che alcune lavoratrici avevano presentato contro la famosa catena di supermercati Wal-Mart (l’accusa: «discriminazione del sesso femminile»); se fosse stata avviata e appoggiata dal milione e mezzo di dipendenti sparse per il Paese, sarebbe potuta diventare l’azione legale collettiva più grande mai intrapresa in America.
Sono comunque molti i processi che hanno piegato note aziende come Apple, Chiquita International, General Motors. Diversa invece la situazione in Europa e in Italia, dove la casistica delle class action è assai inferiore.
Negli Usa hanno fatto storia, per esempio, le battaglie (a partire dal 1994) contro le multinazionali del tabacco Philip Morris e Reynolds, accusate da 300 mila persone di fare pubblicità ingannevole e di aggiungere nelle sigarette additivi che creano dipendenza. Solo la Philip Morris ha sborsato miliardi di dollari per risarcire gli ex fumatori ammalati di cancro e modificare le strategie di marketing. I contenziosi, aperti in più Stati americani, sono proseguiti fino ad oggi: nel 2009 una vedova della Florida ha ricevuto 8 milioni di dollari di indennizzo per la morte del marito fumatore. E quest’anno il marito di una donna deceduta a causa del fumo è stato risarcito per 2,5 milioni di dollari.
Si è conclusa invece nel 1996 la class action contro la Pacific & Gas Company: a guidare la lotta Erin Brockovich, l’eroina raccontata anche al cinema, che scoprì come la compagnia proprietaria di gasdotti avesse inquinato con il cromo le falde acquifere della cittadina californiana di Hinkley, dove si registrava un’alta percentuale di malattie mortali. Gli abitanti hanno ricevuto un indennizzo di 333 milioni di dollari.
Nel 2001 la nota casa di pneumatici Firestone ha perso 10 miliardi di dollari, accusata insieme alla Ford di aver montato sul modello di fuoristrada Explorer gomme difettose.
Nei prossimi mesi sarà al centro dell’attenzione, infine, la class action contro la British Petroleum, responsabile della fuoriuscita di greggio della petroliera Deep Horizon, nel 2010. Secondo le previsioni i cittadini del Golfo del Messico che hanno subito danni alla salute e alle attività economiche riceveranno fino a 7 miliardi di dollari di risarcimento.