La lenta agonia del lago Titicaca - Diritto di critica
Una delle sette meraviglie naturali della Terra sta rischiando di trasformarsi in uno dei tanti simboli del degrado del nostro ecosistema. Incastonato tra Perù e Bolivia, il lago Titicaca, le cui millenarie acque hanno fatto da splendida cornice alle antiche civiltà dell’America Latina, è oggi una gigantesca pozza inquinata da plastica, liquami e piena di mucillagine verde, diretta conseguenza delle sostanze tossiche che sono arrivate qui. Le famigerate alghe hanno da tempo monopolizzato le acque, creando una barriera che impedisce a luce e ossigeno di filtrare in maniera adeguata nelle profondità lacustri.
L’allarme è stato lanciato dalla fondazione tedesca Global Nature Fund e da numerosi comitati di cittadini boliviani, che vivono nella parte più contaminata del lago: «La situazione è diventata gravissima – spiega uno di loro – se non ci aiuta la comunità internazionale è davvero finita». Il villaggio di Cohana è l’emblema del disastro ambientale che sta subendo il Titicaca, distesa di 8 mila chilometri quadrati a 3812 metri di altitudine: i pescatori hanno smesso di lavorare perché rane e pesci sono morti, e le rive verdi e rigogliose hanno lasciato il posto a distese di rifiuti sotto le quali la terra è arida e incoltivabile.
Lo strazio ecologico in realtà ha avuto inizio sin dalla fine degli anni Ottanta, quando le regioni di Perù e Bolivia che circondano il lago hanno visto crescere la popolazione in modo esponenziale. La città di El Alto, fino a trent’anni fa solo un quartiere della capitale boliviana La Paz, conta oggi quasi 2 milioni di abitanti, che gettano qualsiasi cosa nel fiume Rio Seco, con le cui acque, incredibile ma vero, cucinano e si lavano; le industrie, anch’esse fiorite dall’oggi al domani senza strutture e depuratori sufficienti, scaricano rifiuti tossici senza porsi alcun problema. Le conseguenze sono doppiamente terribili: da una parte i cittadini di El Alto si ammalano gravemente, dall’altra il flusso del Rio Seco trascina i veleni per 80 chilometri fino alla baia di Cohana, riversandoli direttamente nel Titicaca. L’estrazione mineraria incontrollata (zinco e mercurio, per esempio) e il riscaldamento globale stanno facendo il resto.
La situazione sul versante peruviano appare meno grave, ma anche qui il sovrappopolamento sta producendo effetti negativi sulla vita di fauna e flora. Nel distretto di Puna duecentomila abitanti vivono ammassati in aree adatte per 50 mila. «Aiutateci altrimenti i nostri figli moriranno – ha chiesto Victor Panca Mendoza, sindaco di Uros Chulluni, oasi dove gli indios navigano ancora su piroghe fatte di legno e vimini – Serve al più presto una legge di tutela che metta in pratica misure urgenti, come la costruzione di nuovi depuratori».
Ma le associazioni locali non intendono fermarsi qua: nei prossimi due anni partiranno progetti per finanziare meccanismi di pulizia delle acque e promuovere un turismo sostenibile, mentre la fondazione tedesca Merz (già responsabile di iniziative simili in Paesi come Sri Lanka, Brasile e Kenya) lavorerà alla sensibilizzazione ambientale di chi abita la regione. Una delle speranze per salvare il lago è che l’emergenza del Titicaca abbia visibilità e diventi un problema internazionale, anche perché la distruzione di un ecosistema si ripercuote sull’intero pianeta. «L’Onu e gli altri organismi mondiali devono prendersi cura di noi – ribadisce un altro primo cittadino – nella sola baia di Cohana più di 10 mila contadini non hanno più acqua pulita per le loro bestie che continuano a morire assieme i cristiani».
Basterà? Il tempo è poco per correre ai ripari. Il “lago sacro delle Ande”dal quale, secondo storici peruviani, partirono i fondatori del grande impero Inca, è in agonia, e con lui le esistenze di milioni di persone.