Iran-Israele, è amore...con un bacio - Diritto di critica
Un ragazzo ed una ragazza si baciano davanti ad una macchina fotografica. Un’immagine come migliaia di altre che si possono trovare in rete, se non fosse per i passaporti che i due ragazzi mostrano all’obiettivo: passaporto israeliano lui, iraniano lei. Un bacio per dire no alla guerra: e la foto fa il giro del web, diventando un simbolo di una pace che, tra Israele e Iran, pare sempre più compromessa.
E mentre la tensione tra i due Paesi continua a crescere – sotto la minaccia israeliana di un possibile attacco alle istallazioni nucleari iraniane, ipotesi che né il premier Benyamin Netanyahu né il ministro della difesa Ehud Barak hanno escluso – e si intensificano i rapporti diplomatici al riguardo, la rete fa sentire la sua voce. E quel tono un po’ naif con cui la protesta mediatica era stata lanciata si è trasformato nel giro di pochi giorni in una voce potente, capace di raccogliere consensi e apprezzamenti in tutto il mondo, virtuale e non. La fotografia del bacio con tanto di passaporto è stata infatti postata sulla pagina Facebook “Israel loves Iran”, creata il 19 marzo scorso sulla scia dell’iniziativa dell’insegnante e graphic designer di Tel Aviv Ronny Edry, 41 anni, che il 15 marzo ha pubblicato sul suo profilo un cartello con la scritta in inglese “Iraniani vi amiamo, non bombarderemo mai il vostro Paese”. Edry e la moglie Michal Tamir hanno poi dato il via ad una pagina Facebook ad hoc, che nel giro di pochi giorno ha superato i 40 mila ‘mi piace’ e ha raggiunto ogni angolo del mondo, Iran compreso. Tanto che è nata anche la pagina gemella, “Iran loves Israel” e si moltiplicano i messaggi di apprezzamento e condivisione della campagna, le fotografie, i video, tutti accomunati dal medesimo messaggio:we love you. Una riproposizione in chiave attuale di quel “fate l’amore, non fate la guerra” che negli anni Sessanta era diventato lo slogan del movimento hippie e delle sue lotte pacifiste.
Il volto di Edry, insieme al tenero bacio tra i due giovani, è diventato così il simbolo di una campagna anti-bellica che il 24 marzo ha portato in strada a Tel Aviv centinaia di israeliani al grido di «Netanyahu-Barak, la guerra non è un gioco». La stessa campagna ora si è spostata anche su Youtube, con un videomessaggio dello stesso Edry per promuovere il messaggio pacifista, in quella forma di partecipazione dei cittadini comuni alle scelte governative su temi caldi che è stata definita “citizen diplomacy”, politica estera fai-da-te. «I governi parlano di distruzione, autodifesa, come se questa guerra non avesse a che fare con noi – dice Edry in un video lanciato sul web a sostegno della sua campagna e rivolto ai cittadini iraniani – Perché ci sia un guerra tra di noi, è necessario che prima abbiamo paura l’uno dell’altro. Dobbiamo odiare. Io non ho paura di voi, non vi odio. Non vi conosco nemmeno. –continua ancora – Qualche volta qui vedo un Iraniano in TV. Parla di una guerra. Sono certo che non rappresenta tutto il popolo iraniano. Se sentite qualcuno in TV parlare di un bombardamento su di voi … state certi che non sta rappresentando tutti noi. Non sono un rappresentante ufficiale del mio Paese. Ma conosco le strade della mia città, parlo ai miei vicini, i miei famigliari, i miei amici e a nome di tutte queste persone … Vi vogliamo bene. Non abbiamo alcuna intenzione di farvi del male. Al contrario, ci piacerebbe incontrarvi, prendere un caffè assieme e parlare di sport. A tutti coloro che provano lo stesso, condividete questo messaggio e aiutatelo a raggiungere il popolo iraniano».
Non è la prima volta che la rete diventa lo strumento privilegiato per tentare di abbattere i muri della discriminazione e della diffidenza, anche su temi che notoriamente scuotono l’opinione pubblica mondiale: il ruolo fondamentale svolto dai social network e dalla rete nei mesi della primavera Araba, ad esempio, è ormai noto. Altro esempio potrebbe essere l’immagine (risalente allo scorso febbraio) del marine americano che, al ritorno in patria, baciava il compagno davanti agli obiettivi, decretando così la fine effettiva di quel “don’t ask, don’t tell” che per anni aveva caratterizzato le fila dell’esercito americano.
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