L’identità nel flusso di coscienza, intervista a Federica Di Carlo - Diritto di critica
Il flusso di coscienza, ‘Stream of Consciousness’, l’ultima opera della poliedrica artista Federica Di Carlo all’Istituto Portoghese di Sant’Antonio a Roma, rappresenta il pensiero creativo dell’autore, senza i vincoli della razionalizzazione. L’arte al potere, come i pesci simbolo della forza. L’identità individuale rafforzata e necessaria all’interno di quella collettiva. Dagli esordi, con la prima esposizione alla Notte Bianca del 2005, fino alle installazioni del ‘Test d’identità’ (2010) e dei ‘Saltatori’ (2011), Federica Di Carlo ha cercato di spiegare concetti e astrazioni attraverso metafore e fotogrammi artistici. Le esperienze del quotidiano, i luoghi e, soprattutto, le persone più vicine all’artista diventano i soggetti dai quali trarre ispirazione. Modelli ‘improvvisati’, impressi su grandi fogli Fabriano 4 attraverso l’utilizzo dell’acquerello e della penna a biro, tecnica innovativa che consente il disegno veloce dei contorni senza interruzione. Abbiamo incontrato Federica Di Carlo nella location della sua ultima esposizione.
Perché ha scelto di utilizzare il simbolo della carpa per rappresentare il flusso di coscienza?
“Ho pensato di mostrare come il pensiero creativo di un artista si formi, attraverso il simbolo della carpa. Nell’installazione, che dà il nome alla mostra, ci sono tutta una serie di pesci, tratti da un timbro antico che trovai a New York, ognuno dei quali va in direzioni diverse come i pensieri non ordinati dalla grammatica. Ciò, mi ha spinto a dar vita a questa installazione ancora non definita. Il contrasto con le leggi della natura è evidente perché nel mare i pesci vanno tutti nella stessa direzione. Ho scelto la carpa perché rappresenta il simbolo del potere e della forza. Questo animale è, a tutti gli effetti, un emblema positivo”.
Quali sono i soggetti da cui trae ispirazione per le sue opere?
“Si basa tutto sull’analisi dell’identità, di me stessa. Questo era il mio pensiero, già da quando frequentavo l’Accademia delle Belle Arti. Vedere come si evolve l’identità individuale in rapporto a quella collettiva. Molti artisti, per le proprie opere, utilizzano modelli. A me piace l’idea di adoperare persone vicine oppure soggetti che posso fermare anche per strada. Nell’opera in cui ritraggo una donna incinta (‘Test d’Identità’, ndr) ho preso spunto dalla sorella di una conoscente. Le ho scattato una serie di foto. I soggetti devono essere alla portata di tutti”.
Per quanto riguarda l’installazione “I saltatori”, l’opera riflette un vissuto personale dell’artista?
“Si, sono tre installazioni con sei date, sei persone a me care, che ho perso in età molto giovane. Ci son voluti dieci anni per riuscire a partorire quest’opera. All’inizio non riuscivo ad affrontare gli eventi traumatici e a superarli. La metafora sta tutta nel salto: quando muore qualcuno a te caro, sei sempre in bilico e attraversi un periodo molto difficile e dilatato. Per alcuni può durare mesi, per altri può essere più lungo. L’idea era quella di utilizzare il salto e focalizzare l’attenzione sul momento della sospensione, poco prima della discesa. Questo, per me, rappresenta il momento positivo, quello del superamento del lutto. C’è un salto nel vuoto e l’istallazione dei papaveri raffigura il concetto della morte, in maniera romantica, diversa rispetto alle consuete rappresentazioni”.
Pensa che la multimedialità rivesta un ruolo importante anche nell’arte?
“Il segreto è che non bisogna diventare ossessivi nell’utilizzare qualsiasi mezzo si abbia a disposizione. L’uso di diversi materiali è avvenuto casualmente, nel momento in cui sviluppavo il progetto. Il video, nel caso dei Saltatori, è stato introdotto di recente al museo di San Salvatore in Lauro. Non avevo mai sperimentato la performance (coinvolge tempo, spazio, corpo dell’artista e relazione tra artista e pubblico, ndr), la consideravo poco produttiva. Cerco sempre di aiutare lo spettatore, guidandolo nella comprensione delle mie opere. Ogni location, di volta in volta, aiuta a decidere quali opere esporre. Nella Casa Internazionale delle Donne lo spazio era angusto, quindi I saltatori non potevano rimanere sospesi. Di solito, in occasione dell’ultima mostra espongo il mio lavoro più recente e si determina quale percorso seguire”.
Qual è la situazione in Italia dal punto di vista artistico?
“I giovani sono penalizzati nel nostro paese. C’è un nuovo fermento, nato solo grazie agli under 35. C’è mancanza, però, di iniziative e collegamenti. Viaggiando in altre città come Barcellona, Londra o New York, è possibile notare numerose differenze: a Londra, per esempio, il ragazzo che esce dall’Accademia ha tutta una serie di opportunità perché riesce a maturare già nella Galleria d’Arte. In Italia, si deve lottare anche solo per riuscire a trovare uno spazio di esposizione per le proprie opere finché l’artista non raggiunge, per lo meno, i 40 anni di età. In giugno, per la mia prossima mostra, sono riuscita a ottenere una location in una torre medioevale a Teramo, uno spazio bellissimo”.
Crede sia importante la contaminazione con altri artisti e intellettuali?
“A me piace differenziare: dalla performance nel cinema, alla collaborazione con lo scrittore inglese Max J. Aldrige, per il quale ho realizzato delle illustrazioni per il libro ‘Peter Pan and The amazing machine of Lord Rubbish’. Un Peter Pan molto classifico, fiabesco, è stata un’esperienza molto interessante”.
Qual è l’opera che la raffigura in maniera più fedele?
“Sicuramente I Saltatori, perché rappresenta l’unione di tutto quello che ho fatto finora. Non è stato facile realizzarla perché non riuscivo a trovare il binomio giusto tra pittura e installazione. Era importante dipingere, cosa molto importante nell’arte contemporanea, senza rinunciare alla manualità che mi contraddistingue. Ho costruito e progettato io stessa le installazioni. In alcuni quadri si vede che a dipingere è stata una donna, mentre nelle istallazioni un po’ meno”.