"Gli americani via dall’Afghanistan entro il 2013" - Diritto di critica
Scritto per noi da Francesca Penza
Il segretario alla Difesa statunitense Leon Panetta, in occasione della visita al quartier generale Nato a Bruxelles, ha annunciato che gli Stati Uniti ritireranno le truppe impegnate in Afghanistan entro la metà del 2013, un anno prima rispetto al calendario annunciato dal presidente Barack Obama.
Il ritiro delle truppe Usa, di fatto, rappresenterebbe l’inizio della famosa transizione afghana, in cui potere e sicurezza saranno completamente nelle mani del governo eletto con a capo il presidente Hamid Karzai.
Dei 90 mila soldati a stelle e strisce dispiegati in Afghanistan, 22 mila rientreranno in patria entro la fine di quest’anno e almeno altri 68 mila entro la metà del prossimo: sul territorio afghano resteranno solo poche unità che avranno il compito di assistere e addestrare le forze di sicurezza locali per tener fronte al terrorismo, cercando di dare continuità alla strategia di counterinsurgency che ha caratterizzato il conflitto nell’area e che secondo gli strateghi militari è l’unico modo per fronteggiare sul campo la frammentata realtà terroristica talebana, in attesa di una soluzione “politica”.
Il segnale è forte, soprattutto perché lanciato proprio da Bruxelles, come a voler lasciare intendere un’assoluta unità d’intenti tra Nato e Stati Uniti in previsione del summit dell’Alleanza che si svolgerà il prossimo maggio a Chicago e che segnerà la battuta d’inizio della Smart Defence: l’assetto Nato globale in uno scenario che potremmo definire post Afghanistan.
Che Panetta – passato al Pentagono a luglio dopo due anni a capo della Cia – non avrebbe avuto compiti facili cui attendere è stato subito chiaro: con la crisi economica diffusa la Difesa è stata una delle prime voci da tagliare, con buona pace di gran parte dell’establishment militare statunitense, del tutto contrario al ripiegamento delle forze armate necessario a ridimensionare il budget, mentre i cittadini sono ormai stanchi del lungo conflitto afghano, in corso da più di dieci anni e causa della morte, fino a oggi, di 1783 soldati statunitensi, molti dei quali figli dell’America più povera e spesso abbandonata a se stessa.
In effetti, però, il disimpegno statunitense in Afghanistan potrebbe indicare anche l’intenzione di impegnarsi in altri conflitti più convenienti sul breve periodo e soprattutto potenzialmente più pesanti sul profilo geopolitico globale. È il caso, per esempio, di eventuali interventi armati in Siria e in Iran, due regioni non poco problematiche anche a causa dell’ingombrante Russia.
La cosa certa è che ora le trattative con il fronte talebano – condotte dal nuovo capo negoziatore Marc Grossman – potrebbero prendere una strada tutta in discesa: avere una data certa che indichi il ritiro delle truppe è un grosso passo avanti, soprattutto rispetto al passato, quando si tendeva a mantenere un certo riserbo sui tempi della transizione per evitare di fare il gioco degli insorti. Il tempismo non potrebbe essere dei migliori: l’annuncio di Panetta è arrivato proprio in concomitanza con l’inizio dei negoziati tra i talebani e gli Stati Uniti, negoziati con base in Qatar e Arabia Saudita che dovrebbero portare alla scomparsa del terrorismo talebano.
Le prime reazioni dei comandi militari in Afghanistan non si sono fatte attendere. Sembra infatti che proprio grazie alle alte sfere contrarie al disimpegno sia trapelato un memorandum di intelligence, ovviamente diffuso dai media, in cui si legge il ruolo essenziale del Pakistan – dove si troverebbero il vertici del movimento – nella restaurazione del regime talebano dopo la partenza delle truppe statunitensi.
A sostenere gli insorti afghani sarebbero addirittura i servizi segreti di Islamabad, che fornirebbero un appoggio tanto forte da permettere ai guerriglieri di far cadere il governo di Karzai – che non solo è caratterizzato dalla corruzione tipica di molti regimi mediorientali, ma è anche considerato un governo fantoccio degli Stati Uniti – e di ristabilire il regime.
Del resto che gli Stati Uniti non avessero particolare fiducia nel Pakistan era già chiaro nel 2010: nel corso del summit Nato di Lisbona, quando ci si aspettava che il governo di Islamabad avesse un maggior rilievo nel corso della transizione – essendo il principale alleato degli Stati Uniti al di fuori dell’Alleanza – e invece venne relegato a un ruolo del tutto marginale.
Comunque il riassetto strategico globale statunitense per Panetta è prioritario, anche perché, come già detto, gli Stati Uniti potrebbero doversi impegnare in altri conflitti, viste le nuove minacce che si affacciano sul panorama internazionale: lo sviluppo del programma nucleare iraniano, il riarmo della Repubblica popolare cinese, il peso sempre maggiore della Russia nel delicato scenario del Medio Oriente.
Il futuro dell’Isaf – non serve dirlo – è nelle mani degli Stati Uniti, mentre l’Afghanistan continuerà a essere un Paese in ginocchio con o senza la presenza delle truppe Usa: corruzione dilagante, alfabetizzazione bassissima, aumento della tossicodipendenza – anche a causa delle piantagioni di oppio e marijuana che rappresentano la più grande fonte di approvvigionamento mondiale, a quanto pare nelle mani degli Stati Uniti, del traffico internazionale di droga – terrorismo diffuso a causa delle frange indipendenti talebane, sicurezza e sanità a livelli inimmaginabili.
C’è da scommettere che il ritiro delle truppe non implicherà una minore ingerenza statunitense nell’area: dai contractors ai “proprietari” delle piantagioni, tutti sono in qualche modo collegati agli Usa.
In condizioni normali ci vorrebbero anni per portare la situazione alla normalità, ma con interessi strategici ed economici così forti l’Afghanistan resterà per lungo tempo solo una terra di scontri e speculazione.