Ingresso libero: Rino Gaetano ci invita ad entrare - Diritto di critica
di Federica Venezia
Rino Gaetano morì il 2 giugno 1981 all’età di trent’anni, in un incidente stradale a Roma, sulla via Nomentana. Pochi giorni prima la sua auto, una Volvo 343, andò completamente distrutta; dallo scontro ne uscì però illeso e fu subito pronto ad acquistarne una uguale. A sentire certe storie, viene da credere ciecamente al destino, all’impossibilità di determinare autonomamente il corso degli eventi.
Insofferente alle logiche del mercato, nel 1978 – spinto dalla casa discografica – aveva partecipato al Festival di Sanremo con Gianna, piazzandosi alle spalle dei Matia Bazar e di Anna Oxa. Un terzo posto da oltre 600 mila 45 giri venduti in una manciata di mesi, traguardo insperato per gli addetti ai lavori che lo tenevano sotto contratto, eppure reale. Sembra che Rino neppure intendesse considerarla quella maledetta canzone. Troppo commerciale, pensò, quasi una brutta copia di Berta Filava. Era dotato di grande ironia il Nostro, gli bastavano tre note alla chitarra per concepire filastrocche visionarie dal marchio inconfondibile; un menestrello spericolato che alle luci della ribalta televisiva preferiva di gran lunga la penombra del Folkstudio, storico locale trasteverino. Amico di Dalla, De Gregori e Venditti (all’epoca compagni di squadra nella It di Vincenzo Micocci), in nessun momento si sentì in competizione con gli illustri colleghi: Rino era inconsueto; nel modo di stare sul palco e spendere la vita, certamente. Ancora oggi, ascoltando i suoi dischi, l’impressione è che sia passata una stella inclassificabile e, dunque, incomprensibile. Ma il cielo è sempre più blu.
Ingresso Libero, datato 1974, è noto come il debutto di Rino Gaetano. La foto di copertina ricorda vagamente il retro dell’Lp Five Leaves Left, altro esordio accolto tiepidamente da pubblico e critica. Un uomo (lo stesso Rino, NdR) si lascia alle spalle il portone di casa, magari per dimenticare qualcosa di importante. Ma se Nick Drake non arrivò mai a sfiorare la fama, il cantautore calabrese invece la ottenne e non seppe o non volle gestirla perché minaccia di una autenticità esibita con orgoglio. L’album, specchio fedele dell’Italia ‘in tensione’, tra bombaroli e temuti Colpi di Stato, si apre con Tu forse non essenzialmente tu, ballata dolce amara piena di passione (“Tu/forse non essenzialmente tu un’altra/ma è meglio fossi tu hai scavato dentro me/e l’amicizia c’è Io che ho bisogno di raccontare la necessità di vivere”); Ad esempio a me piace il Sud è invece il malinconico ricordo del suolo nativo (“Poi mi piace scoprire lontano/il mare se il cielo è all’imbrunire/seguire la luce di alcune lampare/e raggiunta la spiaggia mi piace dormire”), laddove AD 4000 d.c. ritrarrebbe la società del futuro, assediata da uomini programmati per lavorare e consumare di più (“I miei amici carburati a doppio corpo/li ha ripresi il Fondatore dell’estate/un vecchio gioca a carte salta il banco/dopo la sua escalation è tanto stanco”).
Mentre il Cd gira nel lettore, ci appare forzata l’idea di scavare a fondo nel significato di queste fiabe amarognole epperò infinitamente tenere. Poco importa, allora, se A Khatmandu sia il diario di un viaggio effettivamente compiuto “fra i fumi degli spini e la barbera”: scorci della Capitale si concretizzano nella penna di Rino (“A Khatmandu quando ero giù/fra i Fori e la stazione/c’era via Cavour”), e la sofferenza ha un solo colore, che si tratti di un sentimento non corrisposto o di un rapporto ormai giunto al capolinea (Supponiamo un amore); esilarante E la vecchia salta con l’asta, puzzle da comporre e decifrare, a cui fa seguito Agapito Malteni Il ferroviere, cronaca di una migrazione che rimanda a La locomotiva di Guccini (“Seppure complessato il cuore gli piangeva/quando la sua gente andarsene vedeva”). Un pugno di accordi, e I tuoi occhi sono pieni di sale irrompe in tutta la sua soave bellezza; atto d’amore in versi sciolti e, intuiamo, sottile invettiva contro chi accetta passivamente verità prestabilite. Chiude il cerchio L’operaio della Fiat (La 1100), brano simbolo della contestazione con tanto di finale a sorpresa (“E’ il tuo lavoro di catena/che curva poco a poco la tua schiena”). Graffiante e contemporaneo, Gaetano lascia in dono uno stile inimitabile, che tuttavia ha ispirato artisti fortemente influenzati dalla sua opera (Dente, Vasco Brondi etc.). Poeta del nonsense, è stato detto. In fondo, si avverte nell’aria il bisogno di non capire.