Concita, rivelazioni a scoppio ritardato - Diritto di critica
di Virgilio Bartolucci
Chi sarà, ma chi sarà? È la domanda che circola insistentemente dopo lo scoop ritardato di Concita De Gregorio. L’ex direttore de l’Unità, che, all’epoca, si trovava ancora al timone del quotidiano fondato da Antonio Gramsci, ha raccontato di aver ricevuto la confessione di un “altissimo” dirigente del Pd.
Siamo in campagna elettorale per le regionali 2010, Emma Bonino è chiamata a vedersela con Renata Polverini. Dalla sua, la storica leader radicale ha senz’altro il prestigio e la fama. Mentre il lascito dello scandalo Marrazzo, unito al trend che ha consentito al centrodestra di stravincere le politiche del 2008, sono a favore della sfidante. Sappiamo come è andata: la Polverini, creatura politica di fresca costruzione mediatica, va a vincere in volata, superando la Bonino grazie al voto delle province. Il Lazio è suo.
A distanza di molti mesi e dopo aver lasciato l’Unità, lasciandosi dietro anche qualche strascico non proprio amorevole, Concita De Gregorio racconta del dirigente del Pd. In sintesi, il politico le spiega, in tempi ancora non sospetti, che la Bonino deve perdere. Conviene al Pd per permettere a Fini di fortificarsi nei confronti di Berlusconi e di abbracciare la strada del nuovo polo politico centrista.
Il Pd ha boicottato la Bonino, non ha fatto il massimo per vincere le elezioni, preferendo perdere in nome di un disegno politico a lunga scadenza.
La rivelazione che la giornalista ora in forza a Repubblica, ha reso, dalle frequenze di Radio 3, nel corso della rassegna stampa mattutina, fa in poco tempo il giro dei media nazionali, rimbalzando sui giornali.
Per la verità, chiunque si sia trovato a seguire quella campagna elettorale, ricorderà senz’altro che di cose strane ne successero non poche. A cominciare dalla mancata presentazione della lista del Pdl, per proseguire con la scelta della candidata del centrodestra, per finire con una campagna del centrosinistra a dir poco carente in provincia. Dove tra Frosinone, Viterbo e Latina è maturata la sconfitta.
Della mancata presentazione della lista del Popolo della libertà, di cui l’incaricato ed esperto dirigente Alfredo Milioni incolpò prima i “violenti” radicali e poi un improvviso attacco di fame che lo aveva portato a mangiare un panino, se ne sono dette di tutti i colori. Come sono andati i fatti lo raccontano in via strettamente confidenziale uomini di partito e dirigenti locali. Milioni, al momento di presentare le liste, riceve un input specifico da non meglio precisati vertici del partito. Il comando è chiaro: eliminare dalla corsa due nominativi specifici. Due candidati del Pdl – uno con basi familiari ben piantate in politica, l’altro espressione di un giovanilismo emergente e sfrontato-, che in alto loco impensierivano parecchio per il forte seguito locale e l’alto numero di preferenze di cui erano in possesso. Il dirigente si appresta a fare quanto ordinatogli. Nel mentre, però, viene “beccato” dai umini vicini ai due, che evidentemente non si fidavano affatto. Milioni sarebbe stato trascinato fuori con tutti i documenti e addirittura minacciato pesantemente: o si presentano i due nominativi, o non si presenta nessuno. Cosa puntualmente successa.
Molti dubbi li ha fatti venire anche la candidatura di Renata Polverini. L’attuale presidente della Regione Lazio, era a capo di un sindacato di destra, l’Ugl, per la verità semi sconosciuto e di cui nessuno conosceva la reale consistenza numerica. Improvvisamente, la Polverini inizia ad apparire con costanza a Ballarò, uno dei talk show politici di prima serata più seguiti a livello nazionale, e – particolare più sorprendente sia pure nella Rai di Pdl e Lega – dichiaratamente di centrosinistra. Chi ha potuto seguire il programma con una certa costanza, forse ricorda una tribuna piena dei volti più noti della politica, tra i quali spiccava quello di una donna pressochè sconosciuta. Fatto sta che la Polverini diventa una presenza fissa e la sua condidatura viene chiesta a gran voce dagli ex An, che faticano non poco a farla accettare a Berlusconi. Il premier non vede di buon occhio un volto quasi sconosciuto, per di più se è quello di una sindacalista, di destra quanto si vuole, ma pur sempre espressione della workin’class. Una candidatura espressione di una destra sociale, legata a An, ma certo non alla componente Forza Italia. Alla fine, dopo una lunga serie di trattative, il Cavaliere non solo si convince, ma decide di scendere in campo in prima persona, contribuendo in modo determinante al successo finale.
La campagna della Bonino, invece, ha destato dubbi fin da subito, proprio per il rapporto faticoso col Pd. Nel Lazio, dopo la scandalo Marrazzo e alla luce del trionfo del centrodestra del 2008, nessuno voleva immolarsi per una partita considerata già persa in partenza. La radicale, già in lista in Lombardia, si è praticamente autocandidata, togliendo non poche castagne dal fuoco. Nonostante ciò, in molti tra i democratici hanno storto il naso, invocando le primarie.
Trovata, alla fine e non senza fatica, una convergenza sul suo nome, la campagna elettorale è partita a rilento, lasciando spesso troppo spazio all’onnipresente rivale. Con la Bonino che inizialmente ha lesinato la sua presenza agli appuntamenti pubblici, parlando raramente di programmi concreti per la Regione e prediligendo temi più strettamente radicali (era in sciopero della fame contro le violazioni alla legge elettorale), mentre la sua rivale è stata continuamente in mezzo alla gente, in provincia come a Roma, sfruttando ogni occasione, anche a costo di attirarsi critiche: impossibile dimenticare la Polverini all’Olimpico, in curva Nord, a vedere la partita della Lazio con tanto di sciarpetta. In provincia addirittura, i pochi incontri pubblici della Bonino, sono apparsi sotto tono, organizzati in modo sommario e con poche risorse.
Inoltre, mentre la Polverini prometteva anche l’impossibile (vedi, ad esempio, il caso del Santa Lucia), la Bonino non illudeva l’elettorato, spiegando con misura quali fossero le difficoltà finanziarie soprattutto a livello sanitario. Un comportamento che le fa onore, ma che in campagna elettorale è raro scorgere.
Sul finire della corsa, la vice presidente del Senato ha tirato fuori lo spessore indiscutibile del suo personaggio, l’esperienza e le doti alla base della sua storia. Ma lo ha fatto solo a Roma, dove, nonostante un sindaco di centrodestra, ha vinto nettamente. In provincia, al contrario, ha perso, scontando lo scarso impegno soprattutto della componente cattolica.
Che i cattolici del Pd non si siano impegnati a dovere, è più che un’impressione. Subito la “teodem” Binetti (ora all’Udc) ha tuonato: “ mai con la Bonino”, definendola come una candidatura inaccettabile. Senza dimenticare le dichiarazioni al vetriolo di Bindi e di Franceschini, che, solo ieri, entrando in merito alle rivelazioni della De Gregorio, ha ricordato la stessa Bonino “io so solo che a metà della campagna elettorale, peraltro difficile, Rosy Bindi e Dario Franceschini se ne sono usciti con mega interviste per dire che non ero la candidata più adeguata. Questo lo so per certo. E questo mi basta”.
Che il partito si era mobilitato solo a metà era abbastanza chiaro. Ed è chiaro che la sconfitta della abortista e divorzista radicale deve aver fatto molto piacere in Vaticano. E la voce circolata, in effetti, era più quella di un favore alla Chiesa, piuttosto che a Fini. Adesso, ogni possibile ricostruzione deve, però, fare i conti con la rivelazione della giornalista, che si è attirata strali da destra e da sinistra. A cominciare dalla Polverini, che non ci sta a un ridimensionamento della sua affermazione e parla di una sfida vera. Dal dibattito apertosi, oltre alla costruzione fin troppo machiavellica del boicottaggio, emerge una domanda: perché adesso?
Perché solo ora la donna alla guida del quotidiano che fu del Pci rivela un particolare così importante e lo fa senza dire il nome dell’alto dirigente in questione?
La dirigenza del Pd respinge l’accusa, mentre il capogruppo alla Regione del Pd, Esterino Montino, invita la De Gregorio a scendere in campo se vuole cimentarsi con la politica in prima persona, con un rimando al presunto disegno dei veltroniani: opporla a Zingaretti nelle primarie per la corsa a sindaco di Roma. L’ex direttore, con una certa acrimonia, ribatte di non aver mai chiesto poltrone o cariche e rigettando una logica che rinfaccia ai suoi detrattori interni al partito democratico, verso cui rivela ruggini mai sopite. Mentre ieri è arrivata la smentita alle indiscrezioni da parte di Valter Veltroni: Concita non sarà candidata, il Pd sosterrà Zingaretti.
All’interrogativo precedentemente riportato se ne lega anche un altro: da direttore di un giornale di partito quale l’Unità, cosa ha fatto Concita per scongiurare un intrigo che va a discapito soprattutto del lettore? Intendendo con lettore chi ci crede e non vorrebbe mai regalare una Regione all’altra sponda, specie se si tratta della sua.
La giornalista afferma di essersi battuta seriamente e lealmente in favore della candidata del centrosinistra, ma di non aver certo potuto raccontare qualcosa di cui era venuta a conoscenza in via confidenziale.
Staremo a vedere. Intanto, nel silenzio del governo Monti, acuito dal disorientamento di una politica che attende con ansia lo svolgersi degli eventi, anche il nome “dell’altissimo dirigente” che ha svelato il complotto anti Bonino assume una certa rilevanza. Certo, se la De Gregorio quel nome lo avesse fatto allora, chissà che scoop per l’Unità.
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Con tutto rispetto, ma perchè tanta attenzione a Concita?
La gravità dei problemi che viviamo è tale per cui queste dichiarazioni così tarde su scenari di teatrino politico -per altro assecondato ampiamente dal giornalisno marca Unità- sembrano ancora più banali, inutili…
Carta e tempo sprecati. Oppure c’è la voglia di distogliere l’attenzione a cio’ che davvero la parte più liberista del PD è pronta a far digerire alla povera gente?
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