Industria della guerra: I nuovi mercati, con il permesso degli USA - Diritto di critica
Prosegue la pubblicazione delle inchieste uscite nel 1980 su Paese Sera e firmate da Graziella De Palo sull’industria della guerra in Italia.
di Graziella De Palo
UN AFFARE da 1.500 miliardi. E’ quello delle undici navi della classe “Ardito” e “Lupo” richieste dal governo di Baghdad all’Italia dopo la crociera “pubblicitaria” della nostra flotta intorno al mondo. Le quattro fregate lanciamissili “Lupo” (prodotte dai Cantieri Navali Riuniti) sono dotate di motori fabbricati dalla Fiat su licenza dell’americana General Electric. La vicenda, soprattutto dopo il veto USA alla fornitura all’Irak di un nostro impianto per il trattamento di materiale radioattivo, è tornata sui giornali. Due senatori americani, infatti, hanno chiesto alla Casa Bianca di bloccare le licenze General Electric, e cioè di mandare a monte l’intera fornitura. Ma l’offensiva USA per rimettere in riga l’industria italiana delle armi è anche più vasta. La Lobby americana, già in allarme per l’affare irakeno, si è scandalizzata per i pezzi di ricambio degli elicotteri Agusta (costruiti in Italia sempre su licenza USA) spediti di recente all’Iran. E il governo di Washington minaccia di reagire.
Le due notizie hanno fatto un certo rumore negli ambienti italiani, risentiti per un intervento così scoperto. Fin qui, niente di strano. Quello che mercati e generali sembrano aver dimenticato è la periodicità di interventi altrettanto pesanti (ma ben lontani dall’essere “moralizzatori”) nella nostra politica delle esportazioni belliche. Non occorre andare molto indietro nel tempo: l’anno scorso, gli Stati Uniti bloccarono la fornitura di più di 100 aerei G/222 dell’Aeritalia alla Libia. Gli apparechi, come le navi destinate all’Iraq, erano dotati di motori General Electric. La ditta, allora, tentò di sfuggire al condizionamento ricorrendo a motori Rolls Royce inglesi. Dell’affare, poi, non si è saputo più nulla. E ancora, nel giugno del ’79 un’altra fornitura di aerei, questa volta apparecchi da addestramento della Aermachi destinata alla Turchia (era prevista, fra l’altro la costruzione di un impianto di montaggio in territorio turco), è stata bloccata dagli Stati Uniti, che nei mesi precedenti avevano deciso di sospendere gli aiuti militari al governo di Ankara. Il via all’operazione è stato dato soltanto dopo l’esplosione della crisi iraniana e la conseguente decisione di riaprire il mercato turco. Secondo l’Aermacchi, un analogo blocco alla vendita di aerei da addestramento è arrivato nello stesso periodo anche su un’altra commessa, richiesta dall’Indonesia. Il “materiale strategico” che non dovrebbe essere venduto in nessuna delle zone calde, dunque, viene facilmente fermato dagli Stati Uniti soltanto nei momenti e nelle situazioni adatti, secondo un disegno preciso. Ma questi non sono che segnali secondari.
La partita, in realtà, è molto più complicata. Le carte più evidenti di questa partita, quelle che rendono possibili pressioni efficaci e non casuali, sono date dall’integrazione fra l’industria bellica italiana e quella americana. Un’integrazione capillare, che non si limita ad accordi di produzione su licenza (che del resto in molti casi avvengono direttamente nei paesi del Terzo Mondo), ma fa dell’Italia una specie di “pedina avanzata” nel controllo e nella diffusione degli armamenti, i cui fili sono manovrati dagli Stati Uniti.
Qualche esempio: tra i settori “delicati” affidati alle imprese italiane c’è il bastione bianco sudafricano, e, fino alla caduta delo scià, quello iraniano. Secondo il SIPRI (l’Istituto Internazionale per le Ricerche sulla Pace di Stoccolma), abbiamo venduto al Sudafrica 20 aerei leggeri da trasporto Aermacchi AL-60 (poi arrivatri nella Rhodesia razzista), 40 aeroplani da addestramento Aeritalia-Aermacchi AM-3C e 20 aerei da ricognizione marittima Piaggio 166-S. Tutti apparecchi italiani, ma fino ad un certo punto. L’Aermacchi, infatti, fin dal ’69 è in parte di proprietà della ditta statunitense Lockeed Aircraft International, il cui presidente è membro del consiglio di amministrazione dell’Aermacchi. E l’AL-60, in realtà, non è che una versione del “Lockeed 60”, ed è dotato di un motore costruito da un’altra impresa americana, la Avco-Lycoming Division. Sullo stesso modello Lockeed è fabbricato anche l’AM-3C, che cambia solo nella funzione (di addestramento) e nel motore, prodotto in Italia dalla Piaggio su licenza della Avco-Lycoming. La ditta americana fornisce anche i motori dell’aereo da trasporto leggero Piaggio 116-S usato per le attività di sorveglianza sul mare. Direttamente in Sudafrica, poi, viene costruito il C-4M “Kudu”, del tutto simile all’AL-60 e dotato dello stesso motore dell’AM-3C.
Non molto diverso era, fino a poco più di un anno fa, il quadro iraniano. Ma nessuno, naturalmente, si è sognato di far valere il “veto” americano alle esportazioni, possibile sulla carta. E oggi? Come sostituire la perdita del mercato iraniano? Se l’Irak non sembra ancora fornire garanzie abbastanza solide ai mercati d’oltreoceano, c’è un nuovo fronte, ben più ampio, che si schiude in Asia: quello cinese. Anche qui l’Italia, e da diverso tempo, ha una posizione di primo piano. E il presidente americano Carter, in un messaggio dell’anno scorso a Breznev, è stato abbastanza chiaro: gli Stati Uniti non venderanno armi alla Cina, ma resta fermo il “diritto sovrano” di ciascun paese di vendere a Pechino armi difensive. Sarà l’Italia la pedina di Washington in Cina? Oggi si sa soltanto che la flotta della Marina militare italiana, inviata in crociera qualche tempo fa, si è fermata a Manila rinunciando alla sua ultima tappa, Shangai. La Cina aveva avanzato una formale richiesta di acquisto di quattro navi della classe “Lupo”. Il dosaggio, dunque, è accorto, soprattutto dopo le pressioni diplomatiche di Gromiko e Breznev al governo italiano perché limiti le sue esportazioni di armi alla Cina.
Ma le trattative con Pechino risalgono al ’75 e al di là dell’affare delle navi, procedono abbastanza bene. L’anno scorso i Cinesi hanno offerto alle imprese italiane una commessa di oltre 100 miliardi di lire, chiedendo soprattutto materiale elettronico e missilistico. L’operazione è tuttora avvolta nel mistero. Ma una cosa è certa: l’Italia difficilmente riuscirà a sfuggire al meccanismo del’integrazione con l’industria americana. I patti sono chiari: “ciascun governo – si legge nel Memorandum d’intesa firmato nel settembre ’78 dai ministri della Difesa, Ruffini e Brown – non respingerà una richiesta dell’altro per un trasferimento ad un terzo paese di materiali per la difesa o di dati tecnici”, al solo scopo di raggiungere un proprio vantaggio commerciale nazionale.
(continua)