Omicidio Verbano, dopo 31 anni c'è il Dna del killer ma resta il mistero sul dossier - Diritto di critica
Si riapre l’indagine sull’omicidio di Valerio Verbano, il giovane militante di sinistra ucciso il 22 febbraio del 1980 nella sua casa di via Monte Bianco 114, a Montesacro, da un commando composto da tre persone.
I tre, prima, immobilizzarono i genitori del ragazzo e quindi attesero il rientro di Verbano, uccidendolo con un colpo di pistola al termine di una colluttazione. Nello scontro fisico uno dei tre assassini perse gli occhiali, ed è proprio sull’oggetto che sarebbero state isolate alcune tracce organiche utili a risalire al dna dei sospettati.
Del delitto, di cui non si è mai avuta una prova per poter risalire all’identità degli esecutori materiali, furono a lungo sospettati i Nar, ma la rivendicazione del gruppo giunta il giorno stesso è ritenuta un depistaggio.
Otto mesi fa il pm romano, Erminio Amelio, ha riaperto l’indagine. Nel nuovo dossier sono confluite nuove testimonianze e confronti fotografici, ma, soprattutto, la prova regina, resa possibile grazie alle tecniche moderne impiegate dai carabinieri del Ris, ovviamente, sconosciute all’epoca dell’omicidio.
La Procura di Roma ha ordinato di comparare il dna rinvenuto sugli occhiali con quello di due uomini. Uno, da tempo residente in Brasile, l’altro, un insospettabile professionista di Milano. Entrambi risultano aver avuto un passato negli ambienti di estrema destra. Forse ex esponenti di Terza Posizione intenzionati a passare ai Nar e desiderosi di mettersi in mostra.
A 31 anni di distanza, almeno uno dei tre killer, che alle 12 e 44 di quel 22 febbraio sono entrati nell’appartamento di Montesacro, potrebbe avere un volto. Il commando citofonò alla mamma di Valerio, Carla, che si trovava in casa col marito. La donna aprì il portone ai killer, che si finsero amici di Valerio, chiedendo di poterlo attendere a casa. La madre li fece entrare. Appena aperta la porta, gli assassini indossarono immediatamente i passamontagna, ma la donna riuscì a vedere il volto del primo entrato.
Dopo aver immobilizzato i genitori, i tre attesero che Valerio rientrasse e una volta giunto in casa lo aggredirono. Verbano lottò con tutta la forza riuscendo anche a togliere il passamontagna di uno degli aggressori, prima di cadere sul divano, colpito alla schiena, mentre provava a fuggire dalla finestra.
La morte di Valerio Verbano rappresenta uno degli omicidi più misteriosi degli anni di piombo. Un omicidio, l’ennesimo di quella stagione di odii contrapposti e di vendette colpo su colpo, pieno di punti rimasti oscuri. Alcuni di questi sono stati elencati dalla madre di Valerio, Carla Verbano, una donna che da trentuno anni chiede di sapere chi e perché ha ucciso suo figlio.
La donna ha raccontato in diverse occasioni, in televisione e alla radio, del fascicolo messo insieme dal figlio. Una serie di foto di abitazioni e di persone, di appunti, nomi e indirizzi, di cui non aveva ben compreso il senso. Almeno fino all’omicidio. I tre killer una volta legati e imbavagliati i genitori di Valerio, si misero subito alla ricerca di quella documentazione.
Ma il faldone era stato sequestrato dalla polizia subito dopo l’arresto di Verbano, avvenuto nel 1979, per fabbricazione di esplosivi. E’ ragionevole credere che nel dossier risieda il movente del delitto. La cosa più strana, però, è che dopo l’omicidio il documento sparì. Negli archivi del palazzo di giustizia del dossier non venne trovata traccia.
Ne rimasero solo poche pagine, che la polizia aveva fotocopiato. Carla Verbano ha parlato della differenza tra la copia voluminosa che aveva visto in mano a suo figlio e quella incompleta e molto più snella fotocopiata dalla polizia.
Recentemente, con la riapertura dell’inchiesta voluta dalla Procura di Roma, dagli archivi dei carabinieri è saltata fuori un’altra copia messa agli atti. 380 pagine, scritte quasi tutte a mano, in cui compaiono i nomi di militanti del Movimento sociale italiano e della galassia dell’eversione nera.
Vi sono i nomi di Teodoro Buontempo e Francesco Storace, ma anche di Signorelli e Delle Chaie, o di Alessandro Alibrandi. Vi compare anche il nome di Angelo Mancia, il fattorino del Secolo d’Italia ucciso sotto casa il 12 marzo dell’80, la cui morte, rivendicata da “Volante Rossa” è ritenuta tuttora la risposta all’eliminazione di Verbano.
I nomi sono messi in ordine alfabetico, oppure, vengono raccolti per quartieri o sedi di appartenenza. Ogni riferimento viene inserito scrupolosamente, allegando i trascorsi giudiziari, il ruolo e il gruppo di militanza attivo nell’area dell’attivismo di destra.
Si tratta di informazioni che lasciano a bocca aperta.
Verbano muore 3 giorni prima di compiere 19 anni, lecito chiedersi come faccia ad essere in possesso di quelle informazioni, considerato che oltre ai nomi vi sono descritti una serie di spostamenti e di azioni. Il giovane militante, ad esempio, sa che Cristiano Fioravanti – fratello di Giusva, il capo dei Nar – parte il 24 novembre del 1978 alla volta di Trento. Conosce il nome del negozio a cui si appoggiano i neo fascisti per riciclare i soldi delle rapine e finanziarsi, sa addirittura che è sempre sorvegliato da due “neri”. Conosce i covi del Tuscolano e i luoghi dove i “destri” delle sezioni missine si incontrano per preparare le loro spedizioni, come il piccolo bar di via Gela. Come faceva a sapere tutte queste cose? E di chi era l’altra calligrafia che compare nel dossier incredibilmente perso e poi riapparso dopo trent’anni?
Difficile saperlo. È quasi certo, invece, che proprio quelle informazioni abbiano costituito il motivo dell’agguato. Mentre l’omicidio, secondo gli inquirenti, potrebbe essere stato il frutto di una colluttazione. È probabile che i tre del commando volessero soprattutto interrogare Verbano e sapere chi all’interno dei gruppi di destra passava le informazioni. Trovare le talpe potrebbe essere stato il vero motivo del blitz. Ne sono convinti i magistrati, tanto più dopo aver constatato che il nome di uno delle due persone sospettate è compreso nel dossier.
Ma di almeno uno degli assassini ci sarebbe anche la voce. È conservata, infatti, la registrazione della telefonata di rivendicazione – e giudicata un depistaggio – giunta all’agenzia Ansa alle 21 del 22 febbraio 1980: «Nuclei armati rivoluzionari, avanguardia di fuoco, alle ore 13,40 abbiamo giustiziato Valerio Verbano».
Che si trattasse dei killer è chiaro: la voce conosceva sia il calibro della pistola che ha ucciso e soprattutto quello dell’altra dimenticata sul luogo del delitto. L’arma lasciata in casa, una 7,65, è uno dei pochi reperti non fatti sparire e non distrutti su cui ora verranno effettuati i rilievi.
Sempre la madre di Verbano, infatti, ha raccontato che al termine della lotta, suo figlio riuscì a togliere il cappuccio ad uno dei suoi assassini ma, con grandissima sorpresa, il passamontagna venne distrutto nel 1989 su disposizione del giudice istruttore.
Ad accrescere ancor più la stranezza (per usare un eufemismo) del caso, vi è un altro racconto fornito da Carla Verbano. La signora parla del vicino del piano di sopra, che quando i tre uscirono dall’abitazione, si trovava sul ballatoio a fumare. L’uomo che disse di aver visto l’assassino a volto scoperto, in un secondo momento ritrattò tutto. Ma a colpire – racconta sempre la mamma – è come questa persona che si trovava in difficoltà economiche e sotto sfratto, abbia in brevissimo tempo, traslocato in una villa in zona Olgiata.
Una storia inquietante quella dell’omicidio Verbano, che all’improvviso si riapre, con la speranza che il dna trovato possa finalmente diradare la nebbia che avvolge la morte del non ancora 19 enne e donare un po’ di serenità ad una madre, che da trentuno anni attende di sapere chi abbia ammazzato suo figlio.
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