Dissesto idrogeologico, a qualcuno prevenire non conviene - Diritto di critica
Il ministro dell’Ambiente: “il dissesto idrogeologico è stato ignorato per anni”. Anche dal suo governo, che due anni fa approvò un piano di risanamento mai partito, perché i fondi non ci sono. In realtà, a qualcuno conviene curare i disastri piuttosto che prevenire: rende di più.
Ai telegiornali scorrono le immagini di Borghetto Vara invaso da un fiume di fango, i piccoli borghi di Vernazza e Monterosso isolati dal mondo e alimentati dal ponte aereo dei soccorsi. Si contano 6 morti, poi 8, poi ancora i dispersi. E si dimentica, con lo sguardo fisso sulla tragedia, che la pioggia da sola non fa danni: servono case costruite a 3 metri dai fiumi, concessioni edilizie in aree a rischio, tagli ai fondi di prevenzione e agli interventi di bonifica del territorio. Serve un interesse a chiudere gli occhi, attendendo il diluvio.
Non è una metafora. Per mettere in sicurezza l’intera penisola, che vanta il triste record di oltre il 70% dei comuni a rischio idrogeologico, il ministero dell’Ambiente stima una spesa di 40 miliardi di euro. Una cifra che il Governo non ha mai concesso alla Prestigiacomo, uccidendo così il piano di risanamento stipulato con le Regioni nel 2009. Ma forse il costo dei disastri, sempre più frequenti e devastanti (e non solo per i famosi cambiamenti climatici), è più salato ancora: si parla di almeno 50 miliardi di euro pagati dallo Stato in meno di vent’anni. Forse conviene spenderci subito, e non se ne parli più.
Anche perché, a sentire gli specialisti, il costo vero degli interventi è molto più basso: appena 4,1 miliardi di euro, secondo l’Associazione nazionale bonifiche (Anbi). I geologi propongono una miriade di piccoli interventi, capaci di ridurre drasticamente il rischio di frane e alluvioni. “La cosa più importante è lo stop alla cementificazione selvaggia e il rispetto delle zone a rischio”, a cui si aggiunge “la pulizia dei fiumi, il consolidamento del suolo e il rimboschimento”. Un programma capace di portare decine di migliaia di posti di lavoro al nostro sistema paese, forse l’unico vero investimento che meriterebbe finanziamenti nazionali e sovranazionali.
Per qualcuno, quest’idea è un’eresia. I microprogetti non portano appalti da milioni di euro, non sono facilmente catalizzabili verso singole aziende pigliatutto e sono difficilmente barattabili in sede elettorale. In pratica, politici e imprenditori non ci guadagnano abbastanza. Invece, nella ricostruzione ci si sguazza bene, come dimostra la vicenda giudiziaria (ancora in corso) di Anemone e della Cricca dei soccorsi a L’Aquila.
Lavorare nell’emergenza paga sempre, perché nella tragedia i costi si confondono e gli appalti si protraggono a piacimento. I bandi diventano barzellette, le nomine si trasformano in fatto privato. Lo dimostrano i 20 miliardi di euro spesi nel solo 2010 per rimediare ai disastri “naturali”, tra sfollati mantenuti nel limbo degli alberghi e borghi-fantasma puntellati di impalcature. Eppure bastava
qualche divieto severo, controlli credibili sui cantieri e pochi milioni di euro l’anno ad evitare tutto questo. Anche i morti.
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