"Giovanni Macchia, chi era costui?" - Diritto di critica
Un’opera d’arte non sarà mai perfetta, fino a quando non sarà in grado di riprodurre la voce di Giovanni Macchia, vorrei dire, parafrasando quel che scrive Marcel Proust, l’autore della Ricerca del Tempo perduto, di quella del barone di Charlus, personaggio chiave del suo romanzo.
“Giovanni Macchia, ma chi era?” si chiederanno i giovani lettori di Diritto di critica. Perché oggi, giorno del decennale della sua morte, non c’è uno straccio di giornale che lo abbia ricordato, il più grande critico letterario del secolo scorso. Macchia se ne andò in silenzio da un Millennio che non era il suo, 19 giorni dopo quel passaggio epocale costituito dall’11 Settembre 2011.
In realtà anche il ‘900 postmoderno gli andava stretto. Nato in Puglia, a Trani, celebre per la sua cattedrale, nel 1912, ha attraversato il secolo in cui è nato come un nostalgico dandy. Solo un altro grande critico italiano gli è comparabile, Mario Praz,”l’anglista”, contrapposto a lui, il “francesista”. Vito, il padre magistrato, si trasferì nella capitale l’anno successivo alla Marcia su Roma, nel 1923. Qualche anno dopo il giovane frequentò il liceo classico “Visconti”, per iscriversi poi alla Facoltà di Lettere, dove si sarebbe laureato quattro anni dopo in Lingua e Letteratura francese con Pietro Paolo Trompeo, discutendo una tesi su Baudelaire critico.
Quindi partì per Parigi, dove completò la sua formazione, frequentando dei corsi di perfezionamento alla Sorbona e al Collège de France. La sua carriera universitaria comincia in modo prestigioso con l’incarico alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Da lì, dopo un passaggio a Catania, lo ritroviamo all’Università di Roma dal 1949 alla pensione.
Io ho avuto il privilegio di essere allievo suo e del professor Enrico Guaraldo dal 1973, anno della mia iscrizione al corso di lettere moderne, orientandomi ben presto a laurearmi in Francese, segnato com’ero stato fin dall’ultimo anno del liceo classico dalla lettura, appunto, del capolavoro di Proust. Qualche anno dopo ebbi l’onore di varcare la soglia del suo appartamento ai Parioli, in via Guido d’Arezzo. Quando vi misi piede, la sua casa era già un museo, per via della biblioteca, costituita da trentacinquemila volumi catalogati e conservati in quattro salotti e corridoi e rilegati in marocchino, perché era stata vincolata dallo Stato come bene non divisibile, che fa parte infatti oggi dell’immenso patrimonio cartaceo della Biblioteca Nazionale centrale di Roma.
Gli editori facevano a gara nel contendersi le opere di Macchia, che ha scritto per tutte le case editrici più prestigiose d’Italia, ma che rimase sempre fedele, come prima di lui lo erano stati Gabriele D’Annunzio, Luigi Pirandello, Grazia Deledda, Eugenio Montale, Dino Buzzati, Pier Paolo Pasolini alla sua collaborazione al Corriere della Sera.
Nel 1981, quando il giornale milanese fu travolto dallo scandalo della P2, con la pubblicazione delle famose liste, nelle quali comparivano gli editori e il direttore stesso Franco Di Bella, la battagliera Repubblica, diretta e fondata a Roma solo cinque anni prima da Eugenio Scalfari, che quello scandalo aveva invece cavalcato, riuscì a battere in tiratura il suo colossale e centenario rivale, provocando, tra l’altro, l’esodo dei più prestigiosi intellettuali dell’epoca dalle sue colonne paludate a quelle dell’innovativo formato tabloid romano. Ebbene, Giovanni Macchia fu tra i pochissimi a non seguire l’esodo, rimanendo uno dei pochi protagonisti dell’intellighentia italiana a nutrire e fecondare le ormai decadutissime pagine culturali del vecchio Corriere, il quale, pur riconquistando dopo qualche anno il primato delle vendite, da quell’emorragìa culturale non si è mai più ripreso, com’è sotto gli occhi di tutti.
Ma torniamo ai libri, Macchia ne ha scritti tanti: partendo dal suo Baudelaire si è esteso sull’intera storia della letteratura francese, dalle origini al Novecento, soffermandosi su Molière e il tema della malinconia, la vita, le avventure e la morte di don Giovanni fino ai suoi indimenticabili scritti su Marcel Proust, opere con le quali ha meritato la fama di essere il più illustre francesista del secolo scorso. Ma non ha certo ignorato la letteratura del suo Paese, restituendo alla memoria personaggi come il siciliano Principe di Palagonia, e rivelandosi profondissimo conoscitore di Luigi Pirandello e Alessandro Manzoni.
Di italiani viventi paragonabili a lui ne vedo uno solo: Pietro Citati, che del resto ha scritto su di lui parole memorabili.
Come Machiavelli, Giovanni Macchia passava gran parte delle sue giornate chiuso nel suo appartamento, dialogando dentro di sé o con l’interlocutore di turno, sommessamente, con i Grandi di ogni tempo. Le sue uscite predilette avvenivano la sera, per ascoltare assieme a sua moglie, la signora Carla, i concerti di musica classica. Da vero dandy, infatti, disdegnava qualunque apparecchio elettrico di riproduzione di quei suoni che amava tanto.
Così, spesso, la sua voce cantava, come nessun’opera d’arte potrà mai descrivere. Questo avveniva quando rispondeva al telefono con un “pronto” che sembrava discendere da immense alture fino alla mediocrità del suo interlocutore. Perché Giovanni Macchia era un Grande, e, come tutti i Grandi, era consapevole di esserlo.
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11 settembre 2001 (duemilauno), forse…
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ERRATA CORRIGE: grazie della correzione. Ho scritto erroneamente 2011 invece di 2001.
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notato anch’io l’errore ma veniale peccato in un articolo bellissimo, grazie Giancarlo
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Bell’articolo, complimenti!
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