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Diritto di critica | November 5, 2024

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Industria della guerra: anche l'innocuo "radar" può diventare un'arma micidiale - Diritto di critica

Industria della guerra: anche l’innocuo “radar” può diventare un’arma micidiale

Prosegue la pubblicazione delle inchieste uscite nel 1980 su Paese Sera e firmate da Graziella De Palo sull’industria della guerra in Italia.

di Graziella De Palo*

23 marzo 1980 – SI CHIAMA soft kill weapon, meglio nota come “arma morbida”. E’ il futuro della guerra. Un futuro allucinante: elettronico, automatizzato, rigidamente programmato (e quasi infallibile), contrapposto alla tradizionale immagine dell'”arma dura”, quella convenzionale. E’ l’utopia, pericolosamente vicina, della guerra senza gli uomini, dove il ruolo del soldato (e l’incognita che questo rappresenta, come si è di recente visto in Vietnam) è ridotto al minimo. La sua base consiste in un sistema di sensori, cioè mezzi di telerivelamento mobili, che permettono di localizzare e distruggere “elettronicamente” le posizioni avversarie, sconvolgendo i piani del nemico. Dunque, non si tratta soltanto dell’introduzione di missili teleguidati sempre più sofisticati, ma di una “rivoluzione” spaventosa nel modo stesso di organizzare la guerra. Un sistema molto duttile, che si serve dell’elettronica civile (per esempio i radar) e può essere usato anche per semplici scopi difensivi e preventivi, ma che all’occorrenza si trasforma in micidiale potenzialità distruttiva. Il tema è all’ordine del giorno. Se n’è parlato alla ventisettesima rassegna sull’elettronica dell’Eur, dove esperti e generali hanno paragonato l'”arma morbida” ad un lottatore di judo, in grado di neutralizzare l’avversario evitando lo scontro frontale e colpendolo nei punti vitali. La competitività USA-Europa, che le multinazionali americane tentano di arginare attraverso una serie di accordi di cooperazione con le industrie del continente, si gioca anche su questo terreno. E gli Stati Uniti, oggi, hanno un notevole vantaggio. E’ di pochi giorni la notizia di una nuova arma anticarro messa a punto dagli americani (sarà operativa nella seconda metà del decennio). Il congegno-chiave del sistema è un rivelatore collegato ad un mini calcolatore elettronico e collocato nello steso proiettile, capace di identificare (mediante radio-onde) la massa metallica di un carro armato e di colpirlo anche al buio, coreggendo da solo la sua traiettoria.

In questo futuro della guerra accuratamente preparato dai tecnici delle industrie occidentali non è secondario il ruolo affidato all’Italia.

Ma è un ruolo doppiamente infelice: da una parte, l’Italia è coinvolta nella produzione e nella diffusione nell’area del Terzo Mondo di questo tipo di arma (nelle sue versioni meno sofisticate), dall’altra la dipendenza della nostra industria elettronica non permette di bilanciare questa seconda funzione con i vantaggi della ricerca e dello sviluppo di tecnologie che potrebbero venire usate anche in campo civile. Le esportazioni italiane, infatti, sono accompagnate da una massiccia “importazione” di tecnologia e capitali esteri. Le partecipazioni straniere alla nostra industria bellica sono concentrate proprio nel settore elettronico, e arrivano prevalentemente dagli Stati Uniti. Perché l’Italia? Il meccanismo è semplice. Ancora una volta i gruppi multinazionali, in questo caso i “giganti” dell’elettronica, decentrano il settore bellico della loro produzione nei paesi che mantengono legislazioni più tolleranti in materia.

Nel nostro panorama dell’industria della guerra morbida spiccano la Compagnia Generale di Elettricità (con una partecipazione di maggioranza della General Electric, USA), la FACE Standard (ITT, USA), la Junghans (Dhiel, RFT), la Litton Italia (Litton, USA), la Marconi italiana (General Electric, Gran Bretagna), la Contraves (Contraves, Svizzera), la Oerlikon italiana (Oerlikon, Svizzera), e un’infinità di filiali dei grandi gruppi transnazionali.
Il caso della Oerlikon svizzera, acquistata gradualmente dalla famiglia tedesca Buhrle, è significativo. Torniamo al ’68, all’inizio del boom delle esportazioni di armi: il presidente della società, Dieter Burhle, viene condannato a otto mesi di prigione per aver venduto sistemi d’arma a paesi come l’Arabia Saudita, la Nigeria e il Sudafrica. Tutte esportazioni vietate da una legge svizzera particolarmente rigorosa. Pochi mesi dopo scatta, e si sviluppa nel corso degli anni ’70, il meccanismo di “trasnazionalizzazione” dell’impresa: la produzione militare, valutata nel ’77 in 1.617 milioni di franchi svizzeri, viene in buona parte trasferita in diversi paesi del mondo. I settori militari della multinazionale sono due. La OBM, che comprende otto diverse imprese produttive (tra cui quella italiana), e la collegata Contraves, con due filiali in Europa (Italia e RFT). Meno del 42% di tutta la produzione bellica del gruppo viene realizzato in Svizzera.
Il terreno privilegiato per questo tipo di produzione è quello italiano. La “nostra” Oerlikon occupa circa 700 lavoratori, e oltre al settore elettronico è particolarmente efficiente anche in quello meccanico (munizioni e cannoni antiaerei). La mappa delle sue esportazioni è piuttosto difficile da ricostruire, perché nella maggior parte dei casi non avvengono direttamente. Gli armamenti Oerlikon prodotti in Italia sono spesso incorporati in sistemi d’arma italiani o stranieri e quindi venduti. Tra i successi della ditta, nel ’75, c’è la fornitura all’Arabia Saudita di 120 sistemi antiaerei, per un valore totale di 5 milioni di franchi svizzeri. Anche la collegata Contraves (700 dipendenti), a produzione esclusivamente elettronica, conta tra i suoi clienti privilegiati molti paesi del Terzo Mondo. E, in alcuni casi, l’impresa si è lanciata in produzioni “su misura” per questo tipo di clienti. Tra questi c’è il sistema antiaereo “Fledermans” costruito solo in Italia e venduto all’Iran. La Contraves possiede inoltre una quota di minoranza del capitale della SISTEL (Sistemi Elettronici), specializzata in missili e coinvolta nelle esportazioni semiclandestine.
*Giornalista 24enne, scomparsa in Libano il 2 settembre 1980 e uccisa insieme al collega Italo Toni. I loro corpi non furono mai ritrovati e sull’intera vicenda nel 1984 calò il Segreto di Stato.