Carnage, con Polanski va in scena l'ipocrisia borghese - Diritto di critica
Scritto per noi da Aida Antonelli*
Era il grande favorito dell’ultima Mostra del cinema di Venezia. Invece Carnage, il film che segna il ritorno alla regia di Roman Polanski, non ha ottenuto alcun premio dalla giuria presieduta da Darren Aronofsky. Venerdì scorso la commedia, girata dal regista dopo le ben note vicende giudiziarie che lo hanno visto coinvolto, è uscita in Italia, distribuita da Medusa, in anticipo di qualche settimana rispetto a Germania e Inghilterra.
C’è grande aspettativa per l’ultima opera del regista franco-polacco di fama internazionale, dopo che Carnage al Lido – in anteprima mondiale – ha conquistato proprio tutti, dai critici al pubblico del festival. Il film di Polanski aprirà anche il 49° New York Film Festival (30 settembre – 16 ottobre).
Tratto da un’opera teatrale della drammaturga europea Yasmina Reza, God of Carnage, la pellicola vanta la partecipazione di tre premi Oscar del calibro di Kate Winslet, Jodie Foster e Cristoph Waltz; la sapiente regia di un maestro come Polanski, attraverso la recitazione di attori validissimi, mostra un quadro della borghesia spietato e realistico, smantellando ad uno ad uno i suoi stereotipi. Carnage (“massacro”), racconta l’incontro-scontro di una coppia di genitori della middle class newyorkese, chiusi in un appartamento di Brooklyn per risolvere civilmente la rissa che ha visto coinvolti i loro figli adolescenti. Il tentativo di redimere la questione, trascorrendo una giornata insieme, si rivelerà un fallimento e l’incontro finirà per degenerare: e il regista – premio Oscar 2003 per Il Pianista – fa una “carneficina” impietosa dei suoi quattro personaggi, ritratti nelle loro contraddizioni con ludica freddezza e senso della realtà. I borghesi di oggi, fintamente tolleranti, insoddisfatti, sempre pronti a giudicare, una collera che scorre nelle vene pericolosamente latente, che impedisce la riappacificazione: sono loro al centro della pellicola, diretta con uno stile registico frenetico, in netto contrasto con l’unità di tempo e di azione (il film è girato interamente in un appartamento), e l’impassibilità degli animi dei 4 genitori. Nessuno di loro è disposto a cambiare veramente, a rivedere le sue posizioni: e Polanski questo lo mostra con chiarezza, alternando primi piani a campi totali attraverso un montaggio impeccabile.
Del testo originario, graffiante e impetuoso come è nello stile della Reza, rimane l’impianto brillante e acuto; la costruzione dell’impianto narrativo filmico e la grande prova dei suoi interpreti, fanno di Carnage una grande prova delle capacità indiscusse di Roman Polanski, regista-mito di capolavori come Rosemary’s Baby, Chinatown, Il Pianista, Oliver Twist. Carnage segna il suo ritorno alla commedia, dopo Pirati, datato 1986.
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Il nostro Polanski tributa di nuova grazia (e pubblico) il nobile teatro portandolo sul grande schermo. Carnage, sintetizzando, non è che la trasposizione della riuscita pièce teatrale di Jasmina Reza (Il Dio del Massacro) ove una semplice controversia infantile viene sdipanata da una società matura (rappresentata dagli attenti genitori) in un interno newyorkese. Non volendo sintetizzare, questo frizzante monoscena di 85 minuti ha in versione cinematografica una ricchezza nuova, aggraziata di particolari (difficilmente afferrabili in teatro). Una monografia di Bacon funge da rivelatore dell’inclinazione non così esilarante (come di istinto appaiono i brillanti dialoghi) dell’intera opera. Così come Bacon (“desidero distorcere l’oggetto ben oltre il suo aspetto quotidiano ma, nella distorsione, riportarlo ad una delineazione del suo aspetto, più profondo”) Polanski deforma i protagonisti al fine di smascherarne la vera essenza. Quattro personaggi (la borghese, l’impegnata, il mediocre, l’arrivista) impegnati ad essere a turno vittima o carnefice, giudice o incriminato, fino ad un epilogo che riassume i quesiti fondamentali dell’intera opera: la Beckettiana incomunicabilità, la solitudine (“la verità è che ogni uomo è solo”), l’inadeguatezza (“allora essere buona rende debole?”), l’indifferenza (“Darfur? … io credo nel Dio del Massacro”). Quattro caratteri sociali sì sviscerati (il vomito sul tavolo non è un espediente comico) da rientrare a pieno titolo nella metafora finale (si veda ultimo primo piano) in cui la società moderna non è che un criceto abbandonato sulla strada “spaventato dalla città ma pure incapace di sopravvivere nella giungla, suo habitat naturale”.
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