Dalla Libia all'Italia: «costretti a salire sui barconi, non sapevamo dove ci portavano» - Diritto di critica
Al momento dello scoppio delle rivolte in Libia, Stanley lavorava nel campo dell’edilizia a Tripoli. Se n’era andato dalla Nigeria nel 2004, a seguito dei disordini di natura religiosa nei quali aveva perso la madre. «Non potevo restare. – racconta – La Libia era il paese più vicino e sembrava il più sicuro». Ma le rivolte contro Gheddafi e il successivo scoppio della guerra hanno minato questa certezza, in particolare per i lavoratori neri residenti nel paese: «i soldati di Gheddafi facevano combattere persone di colore, ma non nigeriani: soprattutto gente dal Chad o dal Niger. Ma noi eravamo neri ed avevamo paura, così io ed alcuni miei connazionali ci siamo nascosti nella campagna fuori da Tripoli. Infine alcunisoldati ci hanno trovati: ci hanno chiesto che stavamo facendo, se combattevamo per i ribelli. Noi abbiamo detto che non stavamo con nessuno e loro ci hanno portato di nuovo a Tripoli, al porto, e ci hanno costretti a salire sulle barche. Era il 2 agosto». Stanley si interrompe un attimo, poi aggiunge: «non avevamo idea di dove ci stavano mandando». Da quel momento, la sua storia diventa dolosamente simile a quella di tante altre udite in questi ultimi mesi: un barcone stracolmo, il viaggio verso l’ignoto attraverso il Mediterraneo, il salvataggio da parte delle forze italiane. E poi quel primo lembo di terra della speranza: Lampedusa. «Ci hanno salvato la vita – aggiunge – e dato cibo e vestiti». Poi, pochi giorni dopo, viene trasferito a Manduria e da lì in provincia di Bergamo. Adesso è in attesa di poter presentare i documenti per la richiesta di asilo nel nostro paese.
Mentre Stanley racconta la sua vicenda, altri dei suoi compagni si avvicinano: hanno tra i 18 e i 33 anni e fanno parte delle ondate di profughi giunte a Lampedusa agli inizi di agosto. Lucky è uno dei più giovani, ha lo sguardo da ragazzino e talvolta aggiunge qualcosa al racconto di Stanley, ma quando gli chiedo se vuole raccontarmi la sua vicenda sbarra gli occhi arrossati e scuote la testa: «per favore, non adesso. – dice, in inglese – La prossima volta. Sentire la storia degli altri mi fa stare male, non mi va». E’ invece Joel a prendere la parola: ha 33 anni e faceva il muratore a Bengasi. «Già prima della guerra eravamo discriminati perché neri, – spiega – ma con lo scoppio degli scontri la situazione è peggiorata. Gli oppositori di Gheddafi pensavano che fossimo mercenari, davano la caccia a tutti gli africani. Così sono scappato a Tripoli». La situazione non è però delle migliori neanche nella capitale e Joel decide dunque di tentare la fuga dal paese: a differenza di Stanley, non è stato obbligato da nessuno a salire sui barconi. «Mi ci hanno spinto le circostanze, – spiega, alzando le spalle – non potevo fare altro se volevo salvarmi la vita». A Lampedusa ci ha trascorso una sola notte ed è stato invece tre settimane a Manduria: «non era molto bello, sembrava di stare in prigione. E’ meglio qui, anche se fa freddo».
«La gente qui è gentile, ci sta aiutando», commenta ancora Stanley, poi mi chiede che cosa pensino gli italiani di loro, dei profughi che arrivano dalla Libia. «Vorrei che gli italiani capissero che molti di noi hanno perso tutto – conclude allora lui– e non hanno un altro posto dove andare. Spero di poter restare qui, di poter avere un’altra possibilità di vita qui in Italia».