Carceri per clandestini, l'Italia li rinchiude un anno e mezzo nei Cie - Diritto di critica
Scritto per noi da Andrea Onori
I Centri di identificazione ed espulsione (Cie) tornano a far parlare di sé. Nonostante da quel lontano 8 Agosto del 2009 (entrata in vigore del “pacchetto sicurezza”) non abbiano mai smesso di agitarsi. Sono due anni che ogni giorno proteste, scioperi, gesti di autolesionismo, rivolte, incendi e fughe divampano nel bel mezzo dell’indifferenza più assordante.
Venerdì scorso, l’ennesimo episodio di tensione all’interno del Centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria (Roma). Alcuni migranti rinchiusi all’interno della struttura, hanno incendiato le stanze servendosi dei suppellettili e materassi. La protesta è partita dal settore maschile. Dopo un scontro frontale con le forze dell’ordine, il risultato è di qualche ferito tra i migranti e ingenti danni registrati alla struttura.
Il detonatore che avrebbe fatto scoppiare la rivolta sarebbe lo stesso motivo di due anni fa, quando Maroni varò il “pacchetto sicurezza” allungando la permanenza nei Cie da 60 a 180 giorni. Ora, un migrante potrebbe restare trattenuto addirittura fino a 18 mesi.“Con l’aumento dei tempi di permanenza nei CIE si compie il passo definitivo per trasformare strutture, inizialmente pensate per una permanenza massima di 60 giorni, in luoghi in cui cittadini stranieri, pur non avendo commesso alcun reato, nemmeno quello di clandestinità, così come sancito dall’Unione Europea, sono costretti per un anno e mezzo a vivere in carceri lager» dichiara il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni.
Il Garante si dice indignato e addolorato per come il governo sta affrontando il problema delle politiche migratorie “In questa decisione del Governo, fortemente criticata anche dal mondo cattolico e dal volontariato, non si tiene in considerazione in primo luogo la sofferenza e la dignità di migliaia di persone disperate, a cui nonostante la sensibilità e l’attenzione delle forze dell’ordine e degli operatori che gestiscono i Centri, oggettivamente non è possibile garantire i diritti fondamentali”. Angiolo Marrioni ci conferma che le condizioni di vita all’interno dei centri sono inverosimili e ora, con i tempi che diventeranno più lunghi, la situazione potrà solo peggiorare o addirittura esplodere. “Non è questa un’operazione degna di un Paese civile come il nostro – continua il garante – trasformare dei disperati in detenuti senza diritti, senza assistenza e senza garanzie”.
Per il monsignor Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes allungare i tempi di trattenimento dei Cie, “che non sono un luogo dove le persone vengono tutelate, significa esasperare maggiormente la situazione. Sappiamo che i Centri di Identificazione ed Espulsione sono un luogo di grande conflittualità, di violenza, di autolesionismo, perchè la persona non è tutelata”.
Il 23 maggio del 2008 il Ministro Maroni cambiò nome a queste strutture nonostante il suo fine sia stato sempre lo stesso. In precedenza usava la parola “permanenza” (Centro Permanenza Temporanea), quasi a significare che fosse un soggiorno. Come se i migranti accolti nelle celle avessero un trattamento privilegiato. Invece, oggi ci troviamo davanti ad un progetto diretto di “identificazione ed espulsione” (CIE). Comunque si vogliano chiamare queste strutture, non sono altro che luoghi di detenzione adibiti per immigrati senza permesso di soggiorno. Sono veri e propri centri di reclusione dove gli “irregolari” vengono ammassati per lunghi mesi. Una sospensione della vita.
Nei Cie è praticamente negato l’accesso alle organizzazioni non governative e a tutti gli enti di tutela, a eccezione dell’UNHCR e della Caritas che sono comunque tenuti a presentare formale richiesta di autorizzazione. Anche giornalisti e parlamentari hanno spesso visto chiudersi la porta in faccia. Soprattutto in questi ultimi mesi, quando con una circolare silenziosa lanciata nel mese di aprile, si vietava alla stampa l’ingresso nei Cie e nei Centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara). Il pretesto per varare in poco tempo questa direttiva è lo stato di emergenza per gli sbarchi.
Amnesty International nel suo rapporto annuale del 2010, denunciava che “troppe volte i detenuti sono sistemati in container (come succede permanentemente a Torino) e in altri tipi di alloggi inadeguati a un soggiorno prolungato, esposti a temperature estreme, in condizioni di sovraffollamento. Alcuni centri hanno uno spazio aperto troppo ristretto, quando non manca del tutto”. Un altro comunicato di Amnesty parlava di condizioni igieniche carenti, cibo scadente e soprattutto di mancate forniture di vestiti puliti, biancheria, lenzuola.
Esprimono preoccupazione anche Medici Senza frontiere che chiedono “la chiusura di due centri dove abbiamo riscontrato condizioni di detenzione intollerabili”. Si tratta dei centri siciliani di Kinisia e Palazzo San Gervasio. “Le persone dormono dentro tende e i servizi medici sono insufficienti – dice l’associazione – A Kinisia manca l’elettricità e l’accesso all’acqua è saltuario”. In due precedenti rapporti (2004-2010), Medici Senza frontiere, aveva denunciato le “conseguenze disastrose” sulla salute fisica e mentale delle condizioni di detenzione dei Cie di tutta l’Italia.
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