Roma, un Ponte oltre la disgregazione - Diritto di critica
Scritto per noi da Federico Gennari Santori, coordinatore Gioventù Attiva
Il Ponte della Musica di Roma è finito. L’opera da 8 milioni di euro e quasi tre anni di lavori è stata inaugurata e benedetta martedì scorso, ed apre ora a persone e biciclette. Un ponte “green” che unisce, ma che rischia di essere l’unico segno positivo in una città sempre meno attenta alla socialità.
Un ponte moderno nella forma, che riprende le architetture dello Stadio Olimpico e i colori del MAXXI, e nell’utilizzo, che prevede il transito dei soli mezzi pubblici e, a detta del sindaco Alemanno, “ecologici”. Un ponte che unisce due Municipi, il XVII e il II, e due zone molto diverse dal punto di vista storico e urbano. Sembra una buona idea. Nel dare la benedizione Sua Eccellenza il Vescovo ha parlato di “ponte” come mezzo di unione tra uomini. Ma quali “unioni” si sono costruite in questi anni a Roma?
Nella Capitale troppe cose non funzionano. I malfunzionamenti, dovuti a scelte sbagliate da parte delle amministrazioni, incidono sulla vivibilità di uno spazio urbano, e su tutti i processi interni di “unione”: la coesione sociale, l’ integrazione culturale, la convivenza etnica, la coerenza logistica. Se consentire questo è il compito di un’amministrazione comunale, a Roma non è stato fatto un buon lavoro.
Inutile indugiare sulla cronica inefficienza dei trasporti pubblici romani. I servizi sociali sono allo sfascio. La distribuzione delle risorse tra le zone della città risulta squilibrata (basta guardare le scuole pubbliche di diversi quartieri per rendersene conto). I progetti promossi dall’amministrazione sono ancor più contraddittori, come per la recente idea di sostituire l’asfalto con i sanpietrini in Via del Corso.
Per ammortizzatori sociali, emergenza abitativa, sostegno ai non abbienti non c’è spazio nel bilancio di una città. Ma si trova, a quanto pare, per l’acquisto del palazzo occupato da Casapound – 12 milioni di euro. Alemanno ha parlato di un trasferimento formale dallo Stato alla Capitale, per il quale non dovrà esserci alcun pagamento. Che senso avrebbe mentre chiudono le case famiglia, le case di riposo e i centri di accoglienza? Perché acquistare lo stabile ospitante un movimento politico che, come altri, genera programmaticamente conflitti? Una scelta discutibile, che risulta obiettivamente inutile come investimento per la città. Ed è solo l’ultima di una lunga serie.
Roma deve ripartire dai processi di “unione”, incentivando i servizi pubblici e la riqualificazione delle aree urbane. Ben vengano i ponti pedonali in una città oberata dal traffico, ma per migliorare la qualità della vita dei cittadini servono momenti e luoghi aggregativi per la collettività: luoghi dove “stare insieme” e dove sviluppare un senso di cittadinanza forte, capace di essere d’esempio alla politica e alle istituzioni.
Valorizzare gli spazi pubblici e metterne di nuovi a disposizione dei cittadini, introducendo ove possibile criteri di autogestione o gestione partecipata, è il primo passo da compiere. Ma per farlo, la “politica” dovrà confrontarsi con la sua inefficienza, dovuta principalmente alla mancanza di pragmatismo. Pragmatismo inteso come concentrazione sui problemi e sulle necessità dei cittadini, come sforzo nel comprenderle ed impegno ad agire metodicamente portando avanti vertenze che siano utili al bene comune della cittadinanza.
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