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Diritto di critica | November 22, 2024

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Il Siciliano a scuola, il primo passo verso l'istruzione federale - Diritto di critica

Il Siciliano a scuola, il primo passo verso l’istruzione federale

Matematica, inglese, storia e…siciliano. Sì, avete capito bene. Nell’isola di Sciascia e Camilleri, gli studenti impareranno il dialetto. A scuola. Lo ha deciso la scorsa settimana l’Assemblea regionale, approvando una legge, promossa dall’Mpa, che istituisce il “siciliano” tra le materie da studiare sui banchi di scuola.

L’approvazione trova il sì di tutti i partiti. “Siamo fieri della nostra cultura e delle nostre tradizioni”  spiega il governatore Raffaele Lombardo. “Per questo sono orgoglioso di questa legge che preserva il nostro immenso patrimonio storico e letterario, ponendo le premesse per renderlo parte integrante dei processi formativi delle nuove generazioni”. In pratica un ritorno al passato ed un pericoloso precedente che può rinvigorire le spinte centrifughe sempre più presenti anche nel Meridione.

La legge prevede l’insegnamento delle nuove materie nelle scuole elementari, medie e superiori. Facile la definizione della legge, ben più complessa la sua applicazione. L’amministrazione regionale cercherà una strada non traumatica attraverso il coinvolgimento dei dirigenti scolastici e degli insegnanti. Si tratta, secondo la Regione “di una norma a costo zero” in quanto “le materie che saranno proposte rientreranno nelle quote degli attuali piani obbligatori di studio riservate dalla legge Moratti alle Regioni, senza aumento dell’orario scolastico”.

Così, la prima applicazione del federalismo scolastico arriva inaspettatamente dal Sud. E nell’era della globalizzazione sembra stonare. Questa scelta può essere il primo passo verso quella “scuola federale” richiesta a gran voce dalla Lega. Le conseguenze possono essere serie: vedremo un giorno parlamentari utilizzare il proprio dialetto durante le sedute, pur conoscendo perfettamente la lingua nazionale, come avviene oggi in Spagna?

“Ormai siamo alla stupidità”, dichiara lo scrittore Vincenzo Consolo. “Una bella regressione sulla scia dei ‘lumbard’. Che senso hanno i regionalismi e i localismi in un quadro politico e sociale già abbastanza sfilacciato? Abbiamo una grande lingua, l’italiano, che tra l’altro è nata in Sicilia: perché avvizzirci sui dialetti? Io sono per la lingua italiana, quella che ci hanno insegnato i nostri grandi scrittori, e tutto ciò che tende a sminuirla mi preoccupa”. Ma non è l’unico ad essere dubbioso sulla scelta. Più possibilista è Andrea Camilleri secondo il quale “sarebbe deleterio legiferare l’obbligatorietà del dialetto. Abbiamo una lingua, l’italiano, che al 90% è stata l’artefice dell’unificazione del Paese, e dobbiamo salvaguardarla. I dialetti sono una grande risorsa per la lingua madre e tali devono restare. Esistono solo perché c’è un idioma condiviso da tutti. Ad esempio, invece di saccheggiare le lingue straniere, basti vedere l’abuso di anglismi oggigiorno, potremmo attingere ai nostri dialetti per innervare l’italiano e per salvare la nostra memoria. Ed è quello che io faccio nei miei romanzi”.

Comments

  1. Giuseppe

    Perchè sarebbe un rischio, uno spettro da evitare, quello della spagna?
    In Catalogna come nei paesi baschi la maggior parte della gente conosce perfettamente
    la propria lingua madre (quella regionale) e la lingua impostadallo stato, e sicuramente
    questo non nuoce all’apprendimento dell’inglese (cosa in cui l’italiano medio non eccelle di
    sicuro.) State pur tranquilli che l’italiano non verrà danneggiato dalle lingue regionali come le
    stesse sono state danneggiate dall’imposizione dell’italiano e da un sistema scolastico che si
    è sempre preso gioco delle lingue, culture e storie diverse esistenti prima dell’unità d’Italia.
    Non sentirete mai dire ad un sardo “senti quello che parla l’italiano, quanto è ignorante”.
    Io sono orgoglioso di parlare il sardo, fra le altre 5 lingue che ho imparato e quello che
    imparerò, e quando posso, preferisco di gran lunga parlare in sardo piuttosto che nella lingua
    che è stata imposta nella mia NAZIONE 150 anni fa.

  2. Giuseppe

    E per quanto riguarda Camilleri, vorrei dire che lo rispetto molto, ma in materia si dimostra
    parecchio ignorante. I “dialetti non esistono grazie alla lingua madre, i “dialetti” esistevano da
    prima e si chiamavano LINGUE. Il napoletano era studiato dai commercianti europei, ed il sardo
    è la lingua, per citare un esempio, della “carta de logu”, una delle prime e più moderne costituzione
    d’Europa, in vigore nel regno di Arborea dal quattordicesimo secolo fino al 1827 e documento
    di grande importanza per il diritto europeo.

  3. nicio

    W le lingue locali, dal Veneto vi faccio in bocca al lupo perche l’insegnamento del siciliano diventi reale.
    Aspetto che in breve tempo anche veneti, sardi, ecc possano stdiare a scuola la loro lingua madre.
    Buona fortuna!

  4. Didier Calin

    Paolo l’è “Giornalista professionista, mi occupo di società, esteri, salute e turismo”, ma de lingüística no ‘l sa gnente! El sicilian, come el napoletan, piemontese, lígure, lombardo occidental (=ínsubre) e oriental (=oròbic), romagnòl e emilian, I È de le LENGUE! e sto no l’è política, l’è un FATO SCIENTÍFICO!

    • Visto che non ne so niente, la invito ad “illuminarmi”. Mi citi studi di linguistica che definiscano “lingue” i dialetti locali italiani. Grazie

      • malnat

        uno su tutti: L’atlante UNESCO delle lingue in pericolo. Certo non i “dialettologi italiani” (un nome, una garanzia) alla corte dell’itaglia una d’armi, di lingua, d’altare.

        • Erica Balduzzi

          Tra le lingue e i dialetti intercorre poca differenza. I linguisti trovano difficoltà nello stabilire una vera e propria definizione di “dialetto” dal momento che effettivamente nella maggior parte dei casi si tratta lingue a sè stanti, con regole ortografiche, fonetiche e grammaticali proprie. Tuttavia, spesso quindi la differenza lingua/dialetto si fa in base al numero di parlanti, all’utilizzo della stessa e via dicendo. Regole pratiche insomma, che non tolgono dignità ai “dialetti” nè ne aggiungono alle “lingue”.
          Ma al di là di questo, riprendo uno dei commenti postati sotto, ripensando anche al mio dialetto, il bergamasco: non ne esiste una forma standard. Non esiste in nesusn dialetto, dal momento che si tratta di lingue volte quasi esclusivamente ad una cultura orale. Tra paesi a pochi chilometri di distanza si parlano varianti diverse dello stesso dialetto, chi abita più in alta montagna parla versioni più antiche dello stesso dialetto usando espressioni fuoriuso nella versione dialettale corrente, e via dicendo. Dunque cosa si vuole insegnare nelle scuole? Cosa si può effettivamente insegnare? Togliere ore all’insegnamento di lingue che hanno una valenza globale a favore di un dialetto che ha valore esclusivamente locale avrebbe senso? Inoltre, il dialetto non si insegna: lo si acquisisce per cultura, famiglia, ambiente, ecc. Gente non abituata a usare il dialetto – vuoi perchè in famiglia non lo si parla, oppure perchè è cresciuta in ambienti lontani dal suo paese di origine – può impararne le parole, ma non acquisisce dimestichezza con esso. Fa parte di una cultura che ognuno assorbe in maniera diversa e che, credo, non è possibile standardizzare o rendere uguale per tutti.
          Meglio sarebbe semmai – ma anche questo è già stato proposto sotto – inserire ore extrascolastiche per la valorizzazione delle culture locali in tutte le loro forme: dialetto, simbologia, tradizioni, usi, costumi, storia locale, ecc. Non “al posto di” ma “insieme a”, per valorizzare la propria cultura più antica senza perdere però uno slancio globale che il dialetto, da solo, tende ad inibire. Ma per fare questo servirebbero altri metodi governativi, ben diversi dai tagli alla cultura attuati nell’ultimo periodo…

  5. Andrea

    Le conunico che questi “dialetti”, come vengono disprezzati e mortificati in Italia, sono lingue vere e proprie. Sono state scientificamente classificate in Italia ma anche in giro per tutto il mondo e molte sono state dichiarate “in pericolo di estinzione” dall’Unesco. L’Italia è stata esortata a mettere in atto una politica di conservazione delle lingue locali e la Sicilia sta facendo qualcosa per la salvaguardia della propria. Quindi bisognerebbe dare gran merito alla Sicilia e anzi spero che tutte le altre regioni facciano altrettanto.

    Poi, l’equazione che lingua locale equivalga a spinte centrifughe (voleva dire separatiste?) proprio non regge. Al contrario, uno Stato che opprime e nega le identità locali è uno Stato nemico del popolo. E questo provoca più spinte “centrifughe”. Se invece ogni Regione avesse piena dignità linguistica e culturale sarebbe uno stato più amico e vicino al popolo. La cosa triste è che, invece di vedere un’opportunità per la conservazione delle nostre lingue e tradizioni, inestimabile ricchezza di ogni regione, Lei bolla tutto questo come “pericoloso precedente”… spero che si renda presto conto di cosa sta succedendo realmente.

    • Vorrei proprio sapere chi in Italia si sente oppresso dallo Stato unitario, uno stato che “opprime le culture locali”. Ma di cosa si sta parlando? Un discorso del genere lo accetto dai sudtirolesi, dagli sloveni della Venezia Giulia e dai Sardi. Ma tutti gli altri? Di quali culture parliamo? Di quali lingue? In Puglia, per fare un esempio, da un paese all’altro (20mila abitanti l’uno) si parla un dialetto diverso. Ma per favore…

  6. Art - ilsolitopost.blogspot.it

    Il fatto è che tali politiche in mano a MPA e Lega sono solamente cazzate propagandistiche. Innanzitutto le lingue locali vanno prima standardizzate dal punto di vista lessicale ed ortografico. Il napoletano ad esempio ancora non conosce un’ortografia coerente e completa (anche il grande Eduardo commetteva errori). Questo comporta studi, ricerche, e quindi fondi da spendere. Poi vanno formati gli insegnanti, che, pur essendo madrelingua, non sanno nemmeno scrivere correttamente in “dialetto”. Inoltre vanno preparati testi letterari su cui studiare, per quelle lingue che hanno una povera produzione scritta.
    Ed infine vanno tutelati gli studenti “stranieri”. Un napoletano che si trasferisce a Torino sarebbe in difficoltà rispetto ad uno studente locale, quindi i corsi di “dialetto” non dovrebbero comportare voti. Dovrebbero essere corsi extra, magari pomeridiani, ma per fare ciò servono fondi per pagare i docenti.
    Quindi improvvisare una cosa così importante mi sembra una trovata offensiva per l’importanza che le lingue locali dovrebbero avere nella nostra cultura.

    • E le famiglie che si spostano da regione a regione, con figli in età scolare sono moltissimi. Nell’era della globalizzazione e della mobilità si cammina al contrario, favorendo chi rimane sempre nello stesso posto. Una discriminazione ridicola

  7. el malnat

    Lei si chiede se “Le conseguenze possono essere serie: vedremo un giorno parlamentari utilizzare il proprio dialetto durante le sedute, pur conoscendo perfettamente la lingua nazionale, come avviene oggi in Spagna?” omettendo un fatto importante: catalani, baschi, e galiziani conoscono bene sia la lingua di Stato che la loro lingua regionale, e (al contrario degli italiani) sono alfabetizzati in entrambe. In Italia invece si conoscono poco le lingue del territorio e male l’italiano. I vantaggi del bilinguismo, per chi vuole capirli, sono chiarissimi.

  8. Renato

    Vorrei rispondere a Art.

    Innanzitutto, bisogna dare atto che MPA e Lega almeno idealmente si sforzano di conformare l’Italia alla situazione di altri paesi civili che hanno adottato da anni il bilinguismo, e con discreto successo. Purtroppo però leggi del genere non passano se non sono bipartisan, ed è ovvio: la lingua regionale è la lingua del territorio, non del partito.

    Il lavoro di standardizzazione di certe lingue regionali è già stato fatto con successo e anche in zone dove la standardizzazione è ben lungi dall’arrivare le divergenze consistono spesso solo in dettagli. Si tratta solo di estendere la norma a tutti, e questo si fa con una legge.

    La formazione degli insegnanti non credo sia un problema mostruoso. Già ora si fanno corsi di “dialetto” un po’ ovunque. Gli insegnanti per insegnare a insegnare ci sono già: invece di fare volontariato saranno stipendiati e invece di insegnare presso circoli e associazioni insegneranno nelle università fin quando non arriveranno laureati siculofoni con una formazione umanistica a tutto tondo.

    Per gli studenti stranieri, nessun problema: sembra strano, ma gli esperimenti fatti nelle scuole del Nord indicano che sono i più interessati all’apprendimento.

    In conclusione, secondo me lo sdoganamento del siciliano aprirà nuovi orizzonti e nuove possibilità di lavoro. Certo, non va improvvisato, ma se non si fanno i primi passi non si va da nessuna parte.

    • “bisogna dare atto che MPA e Lega almeno idealmente si sforzano di conformare l’Italia alla situazione di altri paesi civili”. Quali? In Germania si parla tedesco, in Gran Bretagna l’inglese, in Francia il francese. L’unico paese è la Spagna che oltretutto non può dare lezioni all’Italia sul bilinguismo, visto e considerato il laboratorio altoatesino/sudtirolese dove il bilinguismo (quello vero) è realtà trentennale e dove spinte separatiste sono state realmente frenate, anche se non annullate

      • Renato

        No.
        In Gran Bretagna si parla inglese accanto al gallese, cornico, scozzese e gaelico laddove sono parlati. In Francia la Costituzione garantisce il riconoscimento e la tutela dei “patois” come il provenzale, il gallo, l’arpitano, oltre che a lingue non romanze come il bretone, il basco e l’alsaziano (peccato che cent’anni di guerra aperta le abbiano praticamente fatte scomparire). Non conosco la situazione tedesca, ma lassù la percezione del “dialetto” è molto diversa che da noi, tant’è che nessuno dei cosiddetti dialetti tedeschi è a rischio immediato di estinzione.

        Gli Altoatesini hanno ottenuto il bilinguismo integrale italo-tedesco a suon di attentati e dimostrazioni anche piuttosto violente. L’Italia, per salvare il suo dominio sul Sudtirolo è stata costretta a istituire un bilinguismo perfetto. Ma non si tratta di un bilinguismo regionale: c’è dietro uno Stato a cui non si voleva restituire una provincia.